Nel corso di Testo, fiera dei libri tenutasi a Firenze lo scorso febbraio, dal sottotitolo Come si fa un libro, ho avuto la possibilità di intervistare chi per lavoro fa libri da decenni, e che ha anche insegnato come si fa nell’ambito di numerosi master e corsi di editoria: Gianluca Mori, direttore editoriale di Carocci. Vista la sua lunghissima esperienza di confronto quotidiano con il genere della saggistica, è proprio su di essa che si è incentrata la nostra conversazione: a che punto è oggi la saggistica umanistica, verso che direzione va la cosiddetta divulgazione, e c’è davvero un orizzonte comune raggiungibile assieme alle università italiane?
Iniziamo con una
domanda generale: dal punto di vista di chi produce la saggistica, ma anche dal
punto di vista di un fruitore, di un appassionato di saggistica, che
definizione darebbe a questo genere amplissimo, troppo spesso attribuito solo
all’ambito universitario? Qual è l’anima, il senso della saggistica come genere
letterario?
Innanzitutto la
nozione di saggistica va circoscritta:
la saggistica come categoria editoriale, merceologica, abbraccia tutto
l'insieme della prosa non narrativa, il che configura un insieme troppo ampio e indistinto; inoltre,
l'identificazione della saggistica con la non-fiction è fuorviante perché si
parla di non fiction anche a proposito di certe tendenze della narrativa
contemporanea. La saggistica di cui si occupa Carocci proviene in larghissima
misura dall'università, con l'ambizione fondamentale di far dialogare il mondo degli studi con il
mondo più ampio del lettore culturalmente motivato, con un lettore interessato
agli sviluppi della conoscenza, senza
però vincoli accademici. Un lettore ideale, certo, quasi un simulacro,
ma esso orienta il nostro lavoro, per quanto difficilmente artefice delle
classifiche dei libri più venduti. La
sfida è proprio questa: mettere in comunicazione il mondo della ricerca
con quello della libera lettura.
Anche perché
comunque questo è anche un po’il problema dell’università: ci si chiede sempre
come creare engagement con la cittadinanza, come portare avanti la famosa terza
missione. In questo l’editoria e l’accademia hanno lo stesso obiettivo, eppure
spesso sembra che non riescano a mettersi d’accordo!
Va trovato un
incrocio, una consonanza di pensieri che non è facile: non di rado la
produzione del mondo accademico ha un’eminente funzione di riproduzione
corporativa, diciamo così, cioè che serve essenzialmente alla carriera accademica. Ma lavorando su
questo l’editore può avere un’importante funzione di sensibilizzazione nei
confronti dell'autore, sebbene non sia scontata la disponibilità a collaborare. Anche
nell’allestimento, nella costruzione del testo, se si desidera dialogare con un
lettore non strettamente accademico sono importanti le attenzioni al cosiddetto
"paratesto", ad esempio le note. L’apparato di note non può essere
esorbitante. Ma che funzione hanno le note per il libro strettamente
accademico? Non solo quella di esplicitare le proprie fonti e di circostanziare
la propria argomentazione; servono a esibire la propria dote disciplinare, la
propria genealogia di letture, si rendono dunque necessarie per chi vuole fare
carriera. Volta per volta va dunque ritrovato l’equilibrio tra libro di studio e ricerca e un libro
destinato a una libera lettura. È molto impegnativo, ci sono poi degli ambiti
che sono più propizi e altri meno: tradizionalmente le discipline storiche
riescono a trovare più facilmente un lettore non accademico interessato però
alla lettura di un libro che nasce nell'accademia. Altri settori, ad esempio la
critica letteraria, sono ambiti quasi esclusivamente accademici, ed è molto
difficile trovare lettori liberamente motivati. Al di là del lettore ideale di
cui parlavamo, il divoratore di libri e il consumatore di letteratura non
necessariamente di genere, in che misura è disposto ad arricchire la propria
strumentazione di lettura con i saggi di critica letteraria? È una questione
difficile.
Forse per questo
il settore storico ha visto questo boom di divulgazione negli ultimi anni?
I temi storici si
prestano alla cosiddetta “divulgazione”, ma negli ultimi anni si è sviluppato
grande interesse anche per la cultura scientifica. Molti editori ci si sono
dedicati e ci sono stati anche casi editoriali eclatanti, dei megasellers,
molto venduti in Italia e all’estero. Ma a parte questi episodi vertiginosi, è compito
degli editori trovare prospettive nuove, per evitare di illanguidirsi,
replicando in modo quasi burocratico
temi e formule. Anche se tutto ciò fa parte delle dinamiche dell'industria
editoriale, dove non può non agire l'imperativo della produzione. Proprio per
questo sono istruttivi gli studi di Franco Moretti sul romanzo vittoriano:
quanto della produzione ottocentesca, con tutto il suo proliferare di generi e
sottogeneri, ha passato il vaglio della "selezione naturale"?
In fin dei conti,
per lei esiste davvero una differenza tra saggistica e divulgazione?
La differenza
c’è, si può vedere in linea teorica, ma anche concretamente, nel modo in cui
l’editore costruisce il libro. Può forse aiutarci la linguistica del testo: il
testo argomentativo è la saggistica, il testo esplicativo-informativo è
divulgazione. Questa distinzione è astratta, ma per la costruzione di un testo, nei suoi concreti equilibri, è
utile tenerne conto. Ma queste sono solo parole: un conto è dire, un conto è
fare!
Intervista a cura di Marta Olivi
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