di Emmanuel Carrère
Adelphi, marzo 2023
Traduzione di Francesco Bergamasco
pp. 267
€ 20 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
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Si parla troppo, e con troppa compiacenza, del mistero del male. Essere disposti a morire per uccidere, essere disposti a morire per salvare: qual è il mistero più grande? (p.64)
Dai primi giorni del settembre 2021 al luglio 2022 Emmanuel Carrère si è seduto ogni mattina sulle panche del parigino Palais de Justice, uno dei monumenti simbolo dell'Île de la Cité.
Faceva parte del gruppo di giornalisti chiamati ad assistere e raccontare per le pagine dell'Obs quanto era stato annunciato come uno dei processi del secolo: quello ai complici degli attentati terroristici di matrice islamica avvenuti a Parigi il 13 novembre 2015, tra il Bataclan, lo Stade de France e i vari ristoranti della capitale francese. 130 morti, oltre 360 feriti è il loro bilancio in termini oggettivi.
Faceva parte del gruppo di giornalisti chiamati ad assistere e raccontare per le pagine dell'Obs quanto era stato annunciato come uno dei processi del secolo: quello ai complici degli attentati terroristici di matrice islamica avvenuti a Parigi il 13 novembre 2015, tra il Bataclan, lo Stade de France e i vari ristoranti della capitale francese. 130 morti, oltre 360 feriti è il loro bilancio in termini oggettivi.
Immaginatelo entrare ogni giorno dentro il Palazzo di Giustizia con un cordino arancione attorno al collo, tra le mani un grosso taccuino rosso che di lì a poco si sarebbe riempito di pensieri e di dettagli, alcuni dei quali praticamente impossibili da raccontare. Possiamo immaginare anche lo sguardo indagatore e fiero tipico di Carrère e provare a ipotizzare come debba sentirsi qualcuno che sta per gettarsi in un'avventura così impegnativa chiedendosi se riuscirà a resistere.
Dieci mesi sono di per sé una discreta porzione di vita ma sembrano ancora più lunghi se riempiti da frammenti di vicende così complesse e dolorose come quelle che emergono da un evento simile. Carrère al termine di questo viaggio alla fine c'è arrivato e il risultato, anticipato dalle circa 8000 battute settimanali uscite sulla rivista lungo tutto il periodo, è V13, il nuovo atteso reportage narrativo che invita i lettori dentro l'enorme scatola di legno bianca costruita per ospitare il processo, uno spazio straniante creato appositamente come fosse il tracciato di un mondo nuovo o il perimetro di un'opera letteraria.
Diviso in tre sezioni (Le vittime, Gli imputati, La corte), questo libro è ancora una volta la straordinaria prova di incursione dello scrittore nel male come territorio di indagine. L'esperienza di contatto con questa materia bruciante, già avvenuta in modi letterariamente differenti ne L'Avversario, Limonov, Un romanzo russo, I baffi e La settimana bianca, è una delle cifre distintive della sua produzione, quell'arte che rende le sue parole enfatiche ma mai patetiche, dense ma mai barocche.
Desideroso di dedicarsi al reportage - come racconta il vicedirettore della redazione dell'Obs Grégoire Leménagerè, è stato lui a proporsi per seguire insieme agli altri i fatti del V13 - Carrère compie un'operazione giornalistico-letteraria tesa alla restituzione del processo come momento simbolo di una rielaborazione collettiva, quel dopo in cui i vivi si interrogano sui morti e sul loro essere sopravvissuti e i testimoni si domandano cosa resti di un'esperienza così drammatica:
Dieci mesi sono di per sé una discreta porzione di vita ma sembrano ancora più lunghi se riempiti da frammenti di vicende così complesse e dolorose come quelle che emergono da un evento simile. Carrère al termine di questo viaggio alla fine c'è arrivato e il risultato, anticipato dalle circa 8000 battute settimanali uscite sulla rivista lungo tutto il periodo, è V13, il nuovo atteso reportage narrativo che invita i lettori dentro l'enorme scatola di legno bianca costruita per ospitare il processo, uno spazio straniante creato appositamente come fosse il tracciato di un mondo nuovo o il perimetro di un'opera letteraria.
Diviso in tre sezioni (Le vittime, Gli imputati, La corte), questo libro è ancora una volta la straordinaria prova di incursione dello scrittore nel male come territorio di indagine. L'esperienza di contatto con questa materia bruciante, già avvenuta in modi letterariamente differenti ne L'Avversario, Limonov, Un romanzo russo, I baffi e La settimana bianca, è una delle cifre distintive della sua produzione, quell'arte che rende le sue parole enfatiche ma mai patetiche, dense ma mai barocche.
Desideroso di dedicarsi al reportage - come racconta il vicedirettore della redazione dell'Obs Grégoire Leménagerè, è stato lui a proporsi per seguire insieme agli altri i fatti del V13 - Carrère compie un'operazione giornalistico-letteraria tesa alla restituzione del processo come momento simbolo di una rielaborazione collettiva, quel dopo in cui i vivi si interrogano sui morti e sul loro essere sopravvissuti e i testimoni si domandano cosa resti di un'esperienza così drammatica:
Ho letto, sentito dire e qualche volta pensato che viviamo in una società vittimaria, che alimenta una compiacente confusione tra lo status di vittima e quello di eroe. Può darsi, ma gran parte delle vittime che ascoltiamo giorno dopo giorno mi sembrano davvero degli eroi. Per il coraggio di cui hanno avuto bisogno per ricostruirsi, per il modo di abitare questa esperienza, per la forza del legame che le unisce ai morti e ai vivi. Rileggendo queste righe mi accorgo che sono enfatiche, ma non so come dirlo con meno enfasi: a questi giovani - poiché sono quasi tutti giovani - che si avvicendano alla sbarra, gli si vede l'anima. Siamo grati, spaventati, arricchiti. (p. 46)
Il mistero del male e quello del bene sono posti costantemente a dialogo, in un faccia a faccia che attraversa tutte e tre le parti del volume. Nella prima avviene nella maniera più diretta e straziante perché si ha l'occasione di ascoltare le voci dei sopravvissuti e dei parenti di chi oggi non c'è più; nella seconda nella maniera più spiazzante, perché si entra dentro le storie degli imputati e si è chiamati a ripercorrere le vicende che li hanno portati a quella sbarra in un "noi e loro" che progressivamente si esplica in una serie di fattori che siamo chiamati a comprendere:
"Mentre ascolto Micheron con la sua prospettiva da storico, ripenso a una frase stupefacente pronunciata da Salah Abdeslam in uno dei primi giorni del processo, e che per quanto ne so io è passata inosservata: "Tutto quel che dite su noi jihadisti, è come se leggeste l'ultima pagina di un libro. Il libro dovreste leggerlo dall'inizio". (p.108)E infine, il faccia a faccia si sviluppa nella terza parte, quella dello sguardo sulla corte come regno della legge, mentre siamo percorsi da un'inquieta domanda di fondo: può esserci vera giustizia in un processo in cui i principali colpevoli sono morti insieme alle vittime?
V13, esempio di ottima letteratura nata da ottimo giornalismo, ha uno strano effetto sul lettore: riesce a rendere concreta la dilatazione del tempo propria degli attentati.
Nel tempo oggettivo dei fatti, le ore degli spari e delle esplosioni, entra quello della lucida agonia delle vittime nei momenti clou degli attacchi, i terribili istanti in cui si ha la consapevolezza di morire. Vi si innesta dentro il tempo dell'elaborazione del lutto (che è una dimensione sempre presente), quello della raccolta delle evidenze, della loro discussione e ridiscussione, tra domande, silenzi e nuove domande.
Su tutti questi tempi si innestano le ore del processo e quelle della scrittura, che sono ore di comprensione e condivisione, le settimane in cui Carrère e gli altri che hanno vissuto al Palais de Justice hanno maturato un cambiamento da cui è impossibile tornare indietro.
E poi c'è il tempo di una possibile giustizia e di una ricostruzione. Come tutte queste dimensioni, impossibili da misurare solo con gli orologi, si racchiudano l'una dentro l'altra è difficile da spiegare. Ma leggendo, è qualcosa che diventa tangibile.
Nel tempo oggettivo dei fatti, le ore degli spari e delle esplosioni, entra quello della lucida agonia delle vittime nei momenti clou degli attacchi, i terribili istanti in cui si ha la consapevolezza di morire. Vi si innesta dentro il tempo dell'elaborazione del lutto (che è una dimensione sempre presente), quello della raccolta delle evidenze, della loro discussione e ridiscussione, tra domande, silenzi e nuove domande.
Su tutti questi tempi si innestano le ore del processo e quelle della scrittura, che sono ore di comprensione e condivisione, le settimane in cui Carrère e gli altri che hanno vissuto al Palais de Justice hanno maturato un cambiamento da cui è impossibile tornare indietro.
E poi c'è il tempo di una possibile giustizia e di una ricostruzione. Come tutte queste dimensioni, impossibili da misurare solo con gli orologi, si racchiudano l'una dentro l'altra è difficile da spiegare. Ma leggendo, è qualcosa che diventa tangibile.
Come nei più grandi libri di Carrère il racconto del reale danza con la sua profonda e singolare visione della realtà. Si cedono a vicenda il giusto spazio, con galanteria, per ricordarci che nella vita le esperienze di terrore, morte, pietà e amore non possono che essere rese così: guardandole con i nostri occhi vigili e pur sempre parziali di esseri umani.
All'inizio ci sediamo con lui sulle panche scomode della grande scatola bianca pensando di sapere già come ci sentiremo di fronte alle vittime e agli imputati: indignati, offesi, desiderosi di vendetta.
Ci ritroviamo, alla fine, a mettere in discussione molto di quello che pensavamo di sapere sul fondamentalismo islamico, sul nostro rapporto con il "noi" e con il "loro". Ferocia, fanatismo e sofferenza in più punti commuovono e tramortiscono, ma donano anche una nuova coscienza a chi arriva alla fine del processo. Ci si sente grati per esserci ancora, per avere l'occasione di trasformare il dolore in qualcosa di diverso.
Ci ritroviamo, alla fine, a mettere in discussione molto di quello che pensavamo di sapere sul fondamentalismo islamico, sul nostro rapporto con il "noi" e con il "loro". Ferocia, fanatismo e sofferenza in più punti commuovono e tramortiscono, ma donano anche una nuova coscienza a chi arriva alla fine del processo. Ci si sente grati per esserci ancora, per avere l'occasione di trasformare il dolore in qualcosa di diverso.
Claudia Consoli
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