Il libro blu di Nebo
di Manon Steffan Ros
Neri Pozza, febbraio 2023
Traduzione di Annamaria Biavasco e Valentina Guani
pp. 144
€16,15 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Le realtà postapocalittiche esercitano sempre un singolare fascino e non ci dispiace leggere gli scenari che la letteratura ci propone, nel tentativo di delineare un mondo che non conosciamo e ci risulta pressoché impossibile anche solo immaginare. Se le opere narrative devono tutto o quasi agli sforzi immaginativi dei propri autori o autrici, la letteratura apocalittica e postapocalittica è un genere che per sua stessa natura alza l’asticella delle difficoltà. Ecco perché è giusto sottolineare la bontà di un romanzo ben fatto in quest’ambito, e nel caso de Il libro blu di Nebo ci sentiamo di affermare che l’esperimento è riuscito.
Non tutti i romanzi che parlano di un mondo postapocalittico hanno bisogno di grandi trovate fantascientifiche per descrivere la realtà in questione. A volte gli ingredienti vincenti hanno a che vedere con la semplicità più autentica, proprio come avviene in questo libro. Non ci sono fantasiose teorie su come il mondo sia arrivato alla catastrofe nucleare, né tantomeno descrizioni delle rivolte di sopravvissuti lasciati in balìa di loro stessi, niente di tutto questo. La storia di Manon Steffan Ros è molto più semplice: parla del rapporto fra una madre e un bambino e di come la Fine abbia costretto entrambi a reinventarsi. Il libro blu di Nebo si presenta come un vero e proprio diario a due mani. Da quando è arrivata la Fine, infatti, Rowenna cerca di continuare a istruire il figlio Dylan come meglio può, ma presto si esauriscono sia il suo bagaglio di conoscenze che i libri a disposizione. A questo punto chiede al figlio semplicemente di scrivere la sua esperienza in un quaderno, appunto il libro blu di Nebo, dove il bambino è chiamato a raccontare le sue giornate. Anche Rowenna inizia a raccontare nel medesimo quaderno: lei scriverà del mondo prima della Fine, Dylan parlerà del mondo nuovo che del resto è il solo che conosce, dal momento che quando arrivò la Fine aveva solo sei anni e ben pochi ricordi nel proprio bagaglio. Il risultato è che il lettore riceve la stessa storia raccontata da due punti di vista diametralmente opposti, in primo luogo per il modo stesso di concepire il mondo, ma anche per le suggestioni e i tumulti interiori generati da questo stesso mondo, nuovo per Rowenna e tutto sommato ordinario per Dylan,
Dylan e Rowenna sembrano essere gli unici sopravvissuti della loro città. Quando stava per arrivare la Fine (di cui Rowenna si affretta a dire dal principio di non conoscere il motivo), Rowenna è stata lungimirante e ha provveduto a preparare le scorte d’acqua che sono poi effettivamente servite a madre e figlio per non morire disidratati nei primi terribili giorni della “nube”. I due si scoprono vivi in una città fantasma e non possono far altro che tornare a uno stile di vita semiprimitivo, dove devono ripensare la propria esistenza in funzione della caccia, delle coltivazioni, delle condizioni metereologiche. Dylan, per sua natura estremamente curioso, impara rapidamente a mandare avanti la casa costruendo tutto il necessario, anche rifornendosi nelle altre abitazioni ormai abbandonate. Ma madre e figlio non sono soli: al momento dell’inizio del diario è già presente la piccola Mona, seconda figlia di Rowenna venuta alla luce proprio nel periodo successivo alla Fine, in circostanze che Dylan non ha il coraggio di indagare. Sono tanti i segreti e le cose non dette fra madre e figlio, come spesso accade quando due persone si vedono troppo e cominciano a non vedersi più. Mona è l’incarnazione vivente di una di queste ma è una benedizione per Dylan, che può scoprire il mondo attraverso nuovi occhi oltre a quelli della madre.
A rendere vincente il romanzo è l’inusuale accostamento fra la materia apocalittica e un racconto tanto semplice, a tratti dolce, incentrato sulle piccole azioni quotidiane necessarie alla sopravvivenza. Non è certo un caso che non si parli quasi affatto della Fine: si sa che si è trattato di una catastrofe nucleare, ma niente di più, non vengono forniti dettagli sugli scenari geopolitici che hanno portato a questo, né si affronta il tema di come le potenze internazionali (se ancora esistono) riorganizzeranno il mondo. Il libro blu di Nebo abbraccia una dimensione intima, dove la fine del mondo si trasforma in una paradossale opportunità per rivendicare il proprio esistere in una terra che è sì desolata, ma ancora viva, disposta a condividere i suoi frutti. Anche quando tutto sembra suggerire il contrario: pensiamo all’episodio del leprotto deforme, nato sfigurato come tanti animali a seguito della Fine. È il prodotto di un mondo malato, eppure suscita in Dylan, a dispetto dell’orrore iniziale, un profondo senso di empatia: rimane comunque una creatura che sta lottando per mantenere il proprio posto nel mondo, esattamente come lui. Con un’indovinata vena malinconica, accentuata dal contrasto fra il racconto di Rowenna e quello di Dylan, Il libro blu di Nebo ci racconta in maniera piacevolmente originale l’evoluzione dei rapporti in una famiglia in un mondo postapocalittico. Un’evoluzione che a tratti si traduce in un irrigidimento, inevitabile soprattutto per Rowenna costretta al continuo confronto con il passato, ma che in altri momenti esprime una speranza commovente e consolatoria.
Alessia Martoni