Guardando la folla gli venne da chiedersi, che folla è questa? Che mondo è? Ciò che gli rimaneva in mente non erano le persone, ma solo il movimento dei piedi che andavano e venivano. A guardarli sembrava che il mondo fosse fatto di passi veloci, un mondo di piedi che colpivano il suolo. Ma dove andavano e da dove venivano? Cos’era che li faceva muovere in quel modo? Cos’era che faceva girare il mondo? […] Se potessi comprendere cos’è che lo fa muovere, pensò, forse potrei anche fermarlo. Quello che voglio è andarmene via, ripetè a voce alta. (p. 27)
Lungo cammino è una esperienza di lettura che lascia strascichi: una volta chiuso il libro, un qualcosa di indefinito si agita ancora dentro la coscienza. Non è di facile lettura, poiché ricco di sottotesti, di simbologie, di rimandi alla storia turca contemporanea neppure tanto velati, ma non c’è dubbio che la penna di Ayhan Geçgin sia riconoscibile e potente, è davvero una delle più interessanti voci della letteratura turca degli ultimi anni.
È un libro che fa dell’esperienza panica la sua sostanza narrativa, la sua linfa che scorre tra le pagine, ora in primo piano, ora in dissolvenza, sullo sfondo delle vicende, ora è fresca come un fiore di marzo, ora è cruda come una sferzata in pieno viso. È un libro che esige riflessione, impone di fermarsi ed aspettare che le parole precipitino nel fondo dell’anima e ci permettano di comprendere il senso del viaggio del protagonista, in cui ognuno di noi può ritrovarsi, indipendentemente dalla cultura, dalla storia, dal luogo. Un viaggio dove il desiderio di dissolversi come nebbia - il pensiero al verso di Eugenio Montale, «svanire è dunque la ventura delle venture» (Portami il girasole, Ossi di seppia) è tornato più volte durante la lettura - campeggia indiscusso durante tutta la narrazione, insieme a domande sul senso dell’esistenza e della vita umana.
«Vivevo a Istanbul, a Güzeltepe, insieme a mia madre. Un mattino sono uscito di casa. Non era ancora giorno. L’aria era fresca, c’era silenzio. Mi sono detto, camminerò senza guardarmi indietro, fino a uscire dalla città, fino a trovare un’ampia pianura, un silenzioso versante di montagna, questa è la mia egira, il mio lungo cammino». (p. 165)
Il protagonista di Lungo cammino è un giovane uomo, non ancora trentenne che un mattino lascia la casa in cui vive con la madre e va via in silenzio, senza avvisarla, di nascosto, senza fare rumore. Scopriremo da subito che il suo viaggio porta con sé una serie di significati più profondi, talvolta ermetici (penso di nuovo a Montale!), è una ricerca verso qualcosa che non tutti hanno voglia di conoscere. Andare alla ricerca dell’autenticità più intima non ammette compromessi, bisogna procedere dritti: Erkan - questo è il nome del giovane - vuole raggiungere la montagna, da solo, lontano dalla prepotenza della vita quotidiana della persona comune, che dimentica sé stesso nel trantran dei suoi bisogni primari, delle relazioni, non sempre autentiche, in un procedere verso il vuoto.
Non più una casa, un tetto sulla testa e un piatto caldo, ma ripari di fortuna in mezzo al verde del parco, il cielo stellato e gli scarti quasi commestibili della spazzatura faranno parte adesso della sua vita. Erkan vuole trovare il senso dell’esistenza e in questo lungo cammino farà degli incontri, verrà derubato dei pochi spiccioli che aveva e, per non ricorrere all’elemosina, si nutrirà delle briciole della città, verrà catturato e picchiato dalla polizia, scambiato per un sovversivo delle guerriglie in piazza contro il governo. La violenza usatagli dagli agenti, i patimenti fisici, l’eccesso di magrezza, la persecuzione del bisogno di mangiare, mangiare, mangiare… qualsiasi cosa, il pensiero di mangiare secondo lui ha più materia di un organo vitale, bisognerà sopprimerlo in qualche modo:
Sentiva proprio al centro dello stomaco, uno strano dolore che non era provocato dalla fame. Mangiare, pensò, mi tiene legato a questo mondo, agli essere umani. Bisogna che si procurasse il cibo in altro modo, ma come? Doveva forse aspettare che il cibo gli capitasse davanti, in una maniera o nell’altra? Ma la cosa migliore era escogitare un sistema per vivere senza mangiare. (p. 25)
Incontrerà persone che lo tratteranno con gentilezza, finirà anche in ospedale, ma Erkan rifugge legami di amicizia, perderà interesse verso il cibo, verso le donne i divertimenti, non penserà più neppure a sua madre, eppure il corpo è ancora un grande ostacolo per raggiungere la montagna: la sua terribile debolezza gli impedisce spesso di rimettersi in cammino. Senza sapere dove si trova, con in mente solo dove vuole arrivare, Erkan incontra i siriani che come lui sono in cammino, scappano dalla guerra che incombe da anni sulla loro terra ormai dilaniata, incontrerà ebrei e curdi, tanti quanti calpestano la terra turca per attraversarla o per viverci nella speranza di un futuro lontano dalla distruzione. Sotto un cielo indifferente, sotto lo sguardo luminoso del sole che sembra fissarlo, Erkan prosegue questo suo cammino iniziatico, superando varie avversità, per trovare un’illuminazione, un’epifania, convinto di poterla scovare solo spogliandosi del vuoto della vita quotidiana e vivendo completamente immerso nella natura.
Significa, gli venne in mente, che per avanzare realmente è necessario che il mondo scompaia del tutto ai miei occhi. […] Ma, mormorò, non saranno più questi occhi a mostrarmi la strada, sarà la mia cecità a mostrarmi la via. (p. 85)
Con la sua prosa essenziale, che tocca punte di lirismo nei passaggi naturalistici, Geçgin ci offre un romanzo che si presta a più chiavi di lettura, complesso e con numerosi spunti di riflessione sul senso della vita e sulla propria identità.
Marianna Inserra