di Matteo B. Bianchi
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C’è un prima e c’è un dopo il dolore.Io ero un’altra persona, prima.E mi rimarrà per sempre il dubbio se il vero me stesso fosse il ragazzo incosciente di allora o l’adulto contorto che ne è seguito. (p. 80)
Il suicidio è uno di quei temi di cui è sempre molto difficile parlare senza cadere nei cliché, nel pregiudizio morale o peggio ancora nel pietismo: il primo rischio è infatti banalizzare un atto che è solitamente il momento finale di un percorso che il suicida compie in maniera silenziosa; nel secondo caso si corre il rischio di parlare del suicidio attraverso le proprie lenti morali, infarcendo dunque le proprie opinioni di sentimenti religiosi pro vita o, al contrario, privando il gesto di qualsivoglia significato: in entrambi i casi si parla del gesto di qualcun altro come se fosse il proprio, e questo è errato; infine, il rischio è quello trattare il suicida e la sua storia come fossero oggetto di un articolo da rivista patinata, magari romanticizzando il tutto o costruendo su quanto avvenuto castelli su castelli.
Questo avviene probabilmente perché il suicidio è un gesto talmente estremo e pregno di significati – molti dei quali conosciuti solo da chi questo gesto lo compie –, e altresì così contrario a quell’istinto di conservazione della vita che ognuno di noi ha, da renderlo a tratti inintelligibile per tutti gli altri, ossia per quelli (parafrasando il titolo del romanzo di Matteo B. Bianchi) che restano.
Il suicidio è un gesto complesso, s’è detto. Chi scrive non ha competenze in psicologia adeguate per poterne parlare diffusamente, tuttavia leggendo il romanzo – che poi romanzo non è: è più un memoir con qualche elemento di narrativa – di Bianchi possiamo ricavare qualche informazione su chi questo gesto l’ha vissuto in prima persona. Il libro infatti è autobiografico e racconta del suicido che il compagno del protagonista – il Matteo B. Bianchi reale – ha compiuto sul finire del 1998. Leggendo le sue pagine possiamo comprendere qualcosa riguardo al suicidio, soprattutto nei rapporti umani: 1) riguardo al rapporto del suicida con se stesso, è un gesto che una persona si autoinfligge le cui motivazioni raramente saranno mai spiegate per intero; 2) riguardo al rapporto del suicida con gli altri, è un gesto che una persona si autoinfligge sapendo che avrà delle ripercussioni anche sulle persone amate, che resteranno scosse per tutta la vita da quanto avvenuto; 3) riguardo al rapporto degli altri con se stessi, i sopravvissuti – così vengono chiamati quelli che restano – finiranno inevitabilmente per interrogarsi sui perché di questo gesto, e finiranno anche per tormentarsi su due domande fondamentali: “potevo fare qualcosa per evitarlo?” e, soprattutto nel caso di familiari stretti (figli, genitori, coniugi, compagni) “perché non sono stato abbastanza per impedire a X di compiere quel gesto?”; 4) infine, riguardo al rapporto degli altri verso il suicida, è un gesto con cui questi dovranno fare i conti per tutta la vita, senza poter per altro rivolgere le domande e le accuse fondamentali alla persona scomparsa perché questa, appunto, non c’è più. Quest’ultimo rapporto è forse il più complesso data l’impossibilità di un confronto finale che possa fornire una chiusura a un rapporto che, molto spesso, non era completamente esaurito. Lo possiamo vedere nel libro in questione: S., il suicida, aveva sì una storia d’amore conclusa col protagonista ma il loro rapporto umano non era finito; idem per il suo rapporto con il figlio, che continuerà a chiedersi se il padre lo odiasse al punto da togliersi la vita.
È bravo Bianchi nel riuscire a sollevare tutte queste questioni senza provare ad attribuire a S., il suicida, le proprie intenzioni. D’altronde ha avuto oltre vent’anni per elaborare il lutto e, per sua stessa ammissione all’interno del libro, si è trovato a scrivere questa storia soltanto quando ha ritenuto fosse trascorso abbastanza tempo da poterne parlare con un determinato distacco. Le sue parole, pregne di un dolore mai dimenticato, consentono al lettore di immedesimarsi facilmente pur in presenza di un atto così estremo e foriero delle emozioni più disparate che difficilmente si potrebbe comprenderne appieno la portata senza averlo vissuto in prima persona. È questo il grande merito di questo libro: il fatto di poter comprendere quanto viene narrato pur senza venire investiti dalla lava incandescente del dolore. Il dolore c’è, è vivo e permane sotto la superficie, ma è tollerabile per chi legge e non sovrasta con la propria onnipotenza tutto il testo. Quel che rimane è quindi tutto il resto: restano i dubbi, restano le domande e le considerazioni, resta la volontà di comprendere e soprattutto resta il bisogno di spiegazioni che infatti il Matteo B. Bianchi scrittore ricerca negli altri, in quelli che ci sono passati e sono rimasti. L’uomo è un animale sociale, dice Aristotele nella sua Politica, e tende naturalmente all’aggregazione. Allo stesso modo, tende anche a ricercare nei propri simili le tracce delle stesse emozioni che ha vissuto: un po’, forse, per il vecchio adagio per cui mal comune mezzo gaudio, ma sicuramente anche perché ci si sente meno soli e più speranzosi se qualcun altro, in questo mondo, ha provato il nostro stesso intensissimo dolore e ne è uscito acciaccato ma saldo, e soprattutto in grado di riprendere in mano le redini della propria vita.
La vita di chi resta è in conclusione un libro che mostra il lato umano di una persona e apre uno spiraglio sopra una voragine che, come un buco nero, può essere in grado di annichilire tutto ciò che le gravita intorno. Una lettura toccante e dolorosa, ma anche portatrice di speranza.
David Valentini