"Noi" interpellati dalla Achmatova. "Vi avverto che vivo per l'ultima volta", di Paolo Nori

 


Vi avverto che vivo per l'ultima volta
di Paolo Nori
Mondadori, 2023

pp. 264
€ 18,50 (cartaceo)
€ 9,99 (e-book)


Non è un romanzo, non è un memoir, non è un saggio di critica letteraria. Non è neppure, il che è quello che forse tutti un poco si aspettavano, un lavoro del tutto analogo a quello che l'autore aveva fatto con Sanguina ancora: raccontare la biografia e l'opera di un autore attraverso l'impatto che essa ha avuto nel proprio vissuto, lì Dostoevskij qui Anna Achmatova. 
Qui dovremmo dire Sanguiniamo ancora, sanguiniamo tutti, perché in Vi avverto che vivo per l'ultima volta, Paolo Nori parla non di Anna Achmatova, ma attraverso Anna Achmatova parla di noi, intesi come uomini dell'Occidente. Il sottotitolo, Noi e Anna Achmatova, è la chiave di accesso a un testo che si legge d'un fiato, ma che non è semplice. 
Noi e Anna Achmatova: intanto, in che modo recepiamo le sue poesie? 
"Leggere le poesie in traduzione è come fare la doccia con l'impermeabile". Questa è la difficoltà: i lettori di questo romanzo faranno un po' di docce con l'impermeabile. Ma forse non cambia moltissimo: a me sembra che nelle poesie di Anna Achmatova piova così forte che ci si bagna anche con l'impermeabile. (p. 11)

Il primo capitolo è una presentazione, seppur con lo stile ondivago ed evocativo di Nori, di Anna Achmatova: non bella ma più che bellissima, capace di spiccare ovunque andasse, di riempire i luoghi in cui entrava. Una che ha imparato l'italiano solo per leggere Dante in originale ("senza impermeabile"), che si chiamava in realtà Gorenko, ma che scelse il nome di Achmatova prendendolo in prestito da un suo avo, perché il padre le impedì di "disonorare" il suo cognome con un'attività così discutibile come lo scrivere poesie. Una perseguitata dallo stalinismo, a cui hanno imprigionato il figlio e fucilato il marito, una che non voleva che la si chiamasse "poetessa", ma "poeta".

C'era una rubrica, su una rivista russa, che si intitolava "Poesia femminile". Non le piaceva. «Capisco» diceva «che ci debbano essere i bagni maschili e quelli femminili, in letteratura però no, non funziona così». (p. 24).

E già in questa notazione, Achmatova ci interpella con prepotenza, a noi dello schwa e a noi in cui il dibattito su un articolo o una desinenza sembra più importante del contenuto di quello che si dice. Ma  è l'esclusione della Achmatova dall'Unione degli Scrittori, il disperato tentativo fatto dal Potere di bloccare la sua libertà di espressione, il delirio di chi pensa di potere ingabbiare la letteratura o usarla per fare schieramenti ideologici che oggi sono attuali. 

Nori dice di essersi trovato a correre per un anno e mezzo nel buio che c'è tra la Russia, l'Ucraina e l'Italia, negli anni che erano di Anna e in quelli attuali. Perché il libro di Nori è anche una delle riflessioni più lucide sulla guerra tra Russia e Ucraina che io abbia letto. Una riflessione radicale, nel senso che va oltre la contingenza, oltre gli schieramenti, alla radice della "bestialità" (come lui la chiama) di cui è capace l'uomo e, nello stesso tempo, è una riflessione che lascia finalmente lo spazio al silenzio delle lacrime, dichiarando che a volte sarebbe più semplice e umano ammettere un "Non lo so", rispetto che fornire sempre risposte a chi chiede soluzioni.

Trova spazio, con ironico garbo, anche la vicenda dei seminari di Nori alla Bicocca su Dostoevskij, cancellati per non evitare tensioni.

Quella mail lì, l'ho riletta tre volte. Come quando ti succede una cosa che ti sembra talmente assurda che non ci credi. L'ho riletta tre volte, era sempre uguale. Allora ho risposto. «Non ho parole» ho scritto. «Ma credo che ne troverò» (p. 29).

E le ha trovate. Ma non per togliersi dei sassolini dalla scarpa, ma per riflettere sul furore iconoclastico che ha colpito non solo la Russia di Putin o la Corea di Kim Jong-Un, ma noi... gli occidentali, i nipotini di Voltaire che "non sono d'accordo con quello che dici ma darei la vita affinché tu possa continuare a dirlo". E, quindi, Nori racconta tra lo divertito e lo spaesato (anche il mortificato per la popolarità che gli è piovuta addosso), la giostra di inviti che gli sono piovuti dalla Cina, dagli USA, dall'Unesco, dalla Persia, da tutte le parti, mentre in Italia e in Occidente  si vietano mostre e balletti, concerti e proiezioni per quelli che, al pari di Dostoevskij hanno avuto «la sfacciataggine di nascere in Russia». Davanti a questi "noi" che reagiamo «così meccanicamente, da cani di Pavlov, alle tendenze del periodo storico», Nori dice che gli 

viene in mente quella pagina di Guerra e pace, di Tolstoj, dove Pierre Bezuchov, il protagonista, un russo che è stato catturato dai francesi nel corso della campagna napoleonica, è lì, di notte, nel recinto dei prigionieri, guarda il cielo stellato e, tutto d'un tratto, scoppia a ridere. E ride forte, a lungo. E ride per un pensiero che gli è venuto: "Ma la mia anima immortale, come fanno a tenerla prigioniera?". Con la letteratura russa, è uguale, Come fanno a tenerla prigioniera? (p. 33)

Niente di nuovo sotto il sole, purtroppo. Ad Anna Achmatova avevano messo dei microfoni in casa, per spiarla. Lei, quando veniva una sua amica a trovarla, parlava a voce alta di cose banali, offriva il té, chiacchierava del tempo, e intanto su un foglietto scriveva i suoi versi e li passava all'amica, che li imparava a memoria. Poi bruciava il foglietto. E così quei versi sono arrivati ai prigionieri nei gulag, ad allietare e a dar loro forza. 

C'è una forza centrifuga nel romanzo di Nori: si divaga, si prendono sentieri che sembrano deragliare dalla via principale, a volte non si capisce dove il nostro voglia andare a parare, ma poi, dietro una svolta, seguendo una citazione o un ricordo personale, si ritorna in carreggiata, arricchiti. È un vagare che mi piace, un apparente disordine che invece ci porta sempre al punto giusto in cui dovevamo arrivare. 

Perché scrivere dell'Achmatova, dicevo, è riflettere sulla libertà dell'arte ma anche sull'umanità della poesia, che in certi periodi storici, come dice Brodskij, è l'unica capace di condensare la realtà in qualcosa di afferrabile. E sempre citando Brodskj, Nori si chiede quale sia il ruolo dell'intellettuale, oggi, in questo momento drammatico di buio della civiltà. "Scrivere delle cose belle" diceva Brodskij, ed è un ruolo difficile, aggiunge Nori.

E questo ruolo difficile lo ha assunto Nori andando in Russia, parlando con le persone, seppure per la prima volta con paura e molta circospezione. Raccontare la verità, la verità di chi resite e sfila contro la guerra, finendo in carcere. Perché oggi, come ai tempi della Achmatova, il ruolo dell'intellettuale deve essere quello indicato da Bulgakov:

Io considero la lotta contro la censura, di ogni natura e qualsiasi potere la sostenga, come un dovere dello scrittore, allo stesso titolo degli appelli alla libertà di stampa. Io sono un feroce partigiano di questa libertà e dichiaro che uno scrittore che possa farne a meno somiglia a un pesce che dichiara pubblicamente di poter fare a meno dell'acqua. (p. 162)

Noi, proprio quel "noi" interpellati dal sottotitolo, ci stiamo abituando a fare a meno dell'acqua, ad esultare per persone che saltano in aria e a fare il tifo in una guerra, come se fosse un derby (che poi, e Nori lo mostra bene, quella fra Ucraina e Russia è decisamente un derby). 

Cosa può dire a "noi" Anna Achmatova? Ad esempio che

Il miele selvatico sa di libertà,
La polvere, di un raggio di sole,
Di Viola, la bocca di una vergine,
E l'oro, di niente.
D'acqua, sa la reseda
E la mela sa d'amore
Ma noi ormai sappiamo già
Che il sangue solo di sangue sa.


Deborah Donato