Anatomia di un suicidio
di Alice Birch
Il Saggiatore, febbraio 2023
Traduzione di Margherita Mauro
pp. 288
€ 18,00 (cartaceo)
Per la prima volta da quando mi cimento (o almeno ci provo) nella recensione di libri, mi trovo in un luogo dove non ero mai stata. Non posso parlare della trama se non superficialmente, come un volo d’uccello che si sofferma appena sulla superficie dell’acqua. Più che delle strutture narrative, dei personaggi e dei contenuti, più che della presenza, avviso i lettori che questa mia introduzione ad Anatomia di un suicidio della drammaturga Alice Birch parlerà di vuoti. I vuoti, gli spazi da riempire, i silenzi che rimbombano tra le pareti di questa pièce teatrale. È una storia che parla di un dolore originario ed ereditario, che, come un fantasma, vigila e influenza profondamente le vite di chi è venuto dopo. Una sofferenza narrata da tre donne, madre figlia e nipote. Tre storie narrate contemporaneamente, da leggere fisicamente allo stesso momento, presi da un turbinio di sovrapposizioni e confusione, dunque all’inizio senza capirci molto, ma comprendendo poi che non si tratta di tre storie diverse, bensì di un’unica storia, corale e atemporale, una presenza che lega indissolubilmente la vita delle tre protagoniste a quella di tante altre donne, un destino da cui sembra impossibile fuggire.
L’incomunicabilità, il silenzio e il dolore sono solo alcune delle parole che potrebbero sintetizzare questa particolare e coraggiosa sceneggiatura. L’autrice ha preso delle decisioni audaci, strutturando il libro come un vero e proprio spartito musicale, costruito su tre livelli narrativi e spazio-temporali.
Essendo quella di Birch un’opera pensata per il teatro, ritengo che leggere solamente la sceneggiatura senza aver assistito all’opera teatrale sia davvero poco sensato. Nella lettura i silenzi non lasciano spazio a un’interpretazione logica, le emozioni sono poco visibili, tutto aleggia nell’aria senza assumere una forma concreta. E anche dal punto di vista dell’intreccio delle tre storie, la lettura simultanea dei tre livelli narrativi non aiuta la comprensione generale della trama. Insomma, per farla breve, la mia recensione basata solamente sulla lettura vi avrebbe potuto dire poco. Ho pensato dunque di farmi aiutare, e l’ho fatto con molto piacere. Ed è qui che entra in scena (ops, non l’ho fatto apposta, giuro…) il nostro ospite d’onore, Graziano Graziani, di cui ho avuto il piacere di recensire e presentare lo scorso anno la sua Planimetria sentimentale del disastro. Se dovessi raccontarvi chi è e cosa fa, finirei per dimenticarmi di cosa stiamo parlando, perché il suo curriculum è davvero troppo lungo e la mia memoria davvero troppo a breve termine. Scrittore e critico teatrale, sguardo chirurgico, attento e sensibile, mi ha concesso un’intervista per raccontarvi meglio Anatomia di un suicidio, che ha visto in scena al Piccolo di Milano il mese scorso. Dopo dieci minuti che parlavamo, mi sono resa conto che dell’opera mi ero persa molte sfumature e dettagli, dopo trenta ho capito che il confronto con Graziani era necessario.
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Partiamo così, senza domande. Raccontami com’è andato lo spettacolo. Cosa ti è piaciuto, cosa ti è rimasto, a cosa ti ha fatto pensare…
Lo spettacolo è di fatto una storia di tre generazioni, nonna, madre e figlia. Anni ’70, anni 2000 e 2033. Non è un futuro particolarmente fantascientifico, rimane un futuro abbastanza presente. Cambiano i rapporti, nel 2000 ad esempio le storie sono tutte eterosessuali, la protagonista della terza storia è invece bisessuale, quindi un minimo di fluidità in più nelle relazioni sentimentali c’è, probabilmente legate anche al tempo in cui sono ambientate. Diciamo che poi al di là di quelli che sono gli intrecci - perché la storia del suicidio è la più vecchia -, ciò che poi va a riverberarsi è come questo fatto abbia influenzato i rapporti e la vita delle generazioni successive, tant’è vero che sul finale la terza donna chiede addirittura se è possibile essere sterilizzata, quasi a cercare una forma di interruzione di quella trasmissione del dolore che sembrerebbe quasi genetica. Di fatto chiaramente non è così, però è un gesto estremo ed è anche un gesto di chiusura di una concatenazione.
Parlami un po’ della struttura spazio-temporale: le tre dimensioni si sviluppavano in contemporanea, i personaggi parlavano tutti insieme contemporaneamente?
Sì. La cosa interessante, e qui parliamo più dello spettacolo che del testo, è quella: per non impazzire a un certo punto ti trovi a seguire un filone, però poi ti rendi conto che il testo è congegnato in un modo per cui di solito l’incrocio non è tra tre personaggi ma tra due, perché una delle tre scene, mentre le altre vanno avanti con l’intreccio, di solito o è muta, o reitera qualcosa. Quindi il tuo cervello registra questa cosa e ti sintonizzi su una storia. Il dispositivo, però, è fatto in una maniera tale per cui poi finisci fatalmente per ascoltare anche l’altra, o comunque a un certo punto ti scolleghi da una e ti sintonizzi sull’altra: davvero come se ti muovessi avanti e indietro tra due stazioni radio. La simultaneità è l’altro grande tema - più formale - di questo lavoro, che poi si interseca con il tema generale legato al dolore. Queste storie sono simultanee non soltanto per fare un virtuosismo sul modello di racconto, ma lo sono perché di fatto, anche se vivono in tempi diversi, questo innesco del suicidio ha ripercussioni presenti negli altri tempi. È come a dire che poi i gesti che ti determinano sono presenti anche se hanno origine nel passato. Questo è molto evidente nella messa in scena, ma credo anche in quello che ha pensato Birch, nel senso che il testo è scritto proprio perché tu ti possa sintonizzare da una parte all’altra e capire che una ripercussione di qualcosa di trent’anni fa è materialmente presente tutt’oggi.
Invece per quanto riguarda il dolore: l’hai percepito di più in chi resta, in chi viene dopo, o nei fatti originari? Da quello che ho percepito io leggendo, il dolore è quasi più evidente in chi c’è dall’altra parte, penso ad esempio al dolore del marito della prima donna. Lei quasi non si rende conto della dimensione in cui si trova, come se fosse in un mondo a parte che per lei forse non è neanche così evidentemente e lucidamente doloroso, come se fosse la sua base di normalità e fosse più presente e lampante il dolore delle persone che le stanno accanto e che cercano di ricostruire la realtà. Hanno quasi più la parola queste persone che orbitano intorno alle fragilità, più che le protagoniste stesse.
È vero, perché nella prima fase sono anche protagonisti di un tempo in cui certe cose non si pronunciavano, per cui il dolore diventa anche l’impossibilità di affrontarlo, di avere le parole, tant’è vero che poi loro, la protagonista che si suicida (Carol) e il marito (John), in determinati passaggi proprio non si capiscono, lui la prende quasi per pazza, o comunque sia vive una sorta di moto di affetto ma quasi paterno. Come quando hai un rapporto molto intenso con una persona, ma non riesci più a parlarci. Tramuti quindi questo rapporto in un rapporto di accoglienza ma non di carattere mentale, non di comprensione, perché lei di fatto il dolore lo vive ma lo vive con una grande naïveté, dissimulando e minimizzando in continuazione. Si origina tutto da lì, da quella frattura, da quell’incomunicabilità, però poi la ripercussione va avanti nel tempo. È chiaro che il dolore delle altre due generazioni è un dolore se non imposto comunque derivato; l’essere nati in una condizione di quel tipo diventa quasi un fatto primigenio che non ha a che vedere con un destino imposto dagli dèi, come nell’antica Grecia (le colpe dei padri che ricadono sui figli), o genetico per davvero come sembra ventilare poi il terzo personaggio, Bonnie, chiedendo la sterilizzazione. C’è inoltre l’idea che l’io di questi personaggi non sia davvero individuale, perché essendo frutto di relazioni, anche dolorose, è determinato da queste relazioni. L’idea di fondo è di mettere in discussione la storia individuale con una storia assoluta, detenuta in toto dal soggetto ma sciolta dentro un insieme di relazioni che alle volte sono incontrollabili e che passano da una generazione all’altra e che in questo senso sono presenti. La simultaneità non è una simultaneità da racconto di fantascienza, dove ci sono il presente e il passato contemporaneamente, in questo caso il presente e il passato sono presenti contemporaneamente perché gli effetti sono permanenti e questi inneschi permangono.
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Quest’intervista potrebbe dilungarsi ancora per molto, ma la farò finire così, forse un po’ bruscamente, per lasciare sedimentare gli elementi emersi. Il nostro ospite consiglia la visione dello spettacolo più di quanto io non consigli la lettura della pièce, per le difficoltà oggettive che lo scritto di Birch presenta, soprattutto dal punto di vista della struttura, che ne impedisce una piena godibilità.
Spero che i nostri lettori arrivino alla fine di queste pagine con la voglia di recuperare questo spettacolo e riflettere su temi difficili, da cui di solito si distoglie l’attenzione, forse per paura di scoprirsi inermi. Lo spero perché è stata un’impresa sintetizzare una lunga chiacchierata in così poche righe! Ma i saperi si intrecciano insieme alle esperienze, e se leggendo questa intervista vi viene voglia di recuperare lo spettacolo o leggere il libro, avremo raggiunto l’obiettivo di accendere la scintilla della curiosità e dell’approfondimento culturale.
Ringrazio Graziano per aver riempito i vuoti che la mia sola lettura aveva creato.
Lidia Tecchiati