In seguito, tutti parleranno del rumore. Del rombo. Con cui è iniziato. Con cui tutto è cambiato, come dicono, in un colpo solo, anche se forse era piuttosto una spinta, come la conclusione sorda e smorzata di un movimento cominciato molto lontano. Quel rumore si è inscritto nella memoria di ciascuno, sotto nomi diversi. Sibilo, ronzio, brontolio, sussurro, tuono, strepito, fruscio, stridore, borbottio, fischio, rimbombo, boato. (p. 46)
Quel giovedì gli resterà impresso. Lo ricordo ancora benissimo, dirà. Il giovedì uscivamo prima da scuola. Ricordo che faceva molto caldo, e dopo pranzo io e mia sorella siamo dovuti andare nel campo sotto la montagna per dare una mano con la prima falciatura. L’erba era già alta. Il sole quel giorno è un buco accecante nelle nuvole, brucia sulla nuca dei bambini fino a far male. I grilli friniscono lievi e frettolosi, come se non avessero tempo da perdere. (p. 17)
Le prime pagine del libro rendono l’idea della sospensione e dell’attesa stupita: la natura circostante, lampi di luce, silenzi sovrannaturali sono presaghi del disastro. Intere famiglie, interi villaggi sorpresi nel pieno della loro quotidianità: giovani colti nei preparativi del matrimonio, coniugi sorpresi nel pieno dell’ennesima discussione, bambini che giocano, qualcuno che lascia la famiglia e si prepara a ripartire per la Germania o per la Svizzera per motivi di lavoro.
La sera del 6 maggio un terremoto scuote il circondario. La terra si apre, le case crollano, persone e animali vengono sepolti sotto le macerie, gli orologi sui campanili si fermano, sono le nove, serpenti neri fuggono nel fiume, sotto la vetta del monte Canin una nuvola di neve scende a valle fendendo la sera. (p. 26)
Ovunque macerie: la Strada Statale 13 è impercorribile, ricoperta di massi staccatisi dalla montagna, alberi sradicati, materiali della rovina, le cittadine di Gemona e Artegna rase al suolo, tantissimi morti e innumerevoli feriti. Il terremoto è una profonda ferita nel territorio e non cicatrizza mai, neppure nella memoria delle persone che lo vissero.
Dove ha avuto origine il sisma? All’epoca si pensò che l’epicentro fosse il monte San Simeone, ai piedi del quale, sotto terra, vive l’Orcolat, un mostro spaventoso che nella coscienza della gente del posto si identifica nel terremoto stesso, quello di maggio, perché in realtà nel settembre dello stesso anno - e nell’ultima parte del libro se ne parla - ci furono altre scosse, comunque distruttive. Kinsky riporta le testimonianze del ricordo, anche le leggende e le credenze, gli usi ed i costumi del posto. Nei racconti e nelle canzoni popolari si parla infatti di una creatura, la Riba Faronika, una donna- pesce faraonica che, nei primi giorni della creazione, venne colpita da un solo granello di sabbia lanciato dalla mano di Dio e, «leggiadra e violenta in egual misura» scosse la sua coda di pesce scatenando terremoti.
La Riba Faronika dei primordi della storia del mondo, tuttavia sonnecchiava nelle profondità del mare, ed era una creatura possente, donna fino al ventre e dal ventre in giù dotata di una coda di pesce divisa a metà. Bruscamente svegliata dal granello di sabbia, agitò le sue code, e la Terra brontolò e si corrugò formando montagne in tutte le direzioni. Stupita del brontoliò che lei stessa aveva prodotto, la Riba Faronika si girò, e allora il mare inondò la terra, e quando si ritirò la terraferma era divisa in continenti. (pp. 120-121)
Esther Kinsky è una delle più interessanti voci della letteratura tedesca contemporanea, ha vinto una serie di premi nazionali ed internazionali e ama passare gran parte dell’anno proprio in Friuli, la regione che le ha ispirato il libro. Rombo è infatti un’opera meritevole per tanti motivi: è un documento che testimonia la vita degli italiani degli anni Settanta, lavoratori che si spostavano in cerca di fortuna in Argentina, Germania, Svizzera e spesso ritornavano per sempre alla loro terra. Quando qualcuno del villaggio riusciva a comprare una Cinquecento o una Vespa tutta la comunità lo accerchiava curiosa della novità. Rombo testimonia la forza di volontà di quella povera gente che si è rimboccata le maniche per la ricostruzione delle sue città. La scrittrice ha scelto l’immagine del duomo di Venzone per concludere il libro con un sigillo: i segni delle crepe del duomo, che era stato in gran parte distrutto dal terremoto, sono ancora lì come un monito ad essere sempre vigili e ad opporsi all’oblio.
Marianna Inserra