E poi ci sono io
di Kathleen Glasgow
BUR Rizzoli, 2019
Titolo originale: Girls
in Pieces
Traduzione di Enrica Budetta
pp. 440
€ 12,00 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)
Ho scoperto questo romanzo perché una persona giovane, sensibile,
mi ha detto che era difficile e bello.
Il titolo originale, Girls in Pieces,
restituisce meglio di quello tradotto la natura
discontinua, frammentaria, della narrazione, che traspone anche a livello
formale la difficoltà della sua protagonista, Charlie, a mettere insieme i
pezzi, di quel che è stato e di quel che è. La realtà che la circonda, nella
prima parte del volume quella dell’ospedale
psichiatrico di St. Paul, il Creeley Center, viene dunque ricostruita
attraverso tasselli, che permettono di identificare un prima, caratterizzato da
una situazione di violenza, desolazione e abbandono, e un dopo, il presente
affollato in cui si trova, quasi suo malgrado, inserita. Non parla, Charlie,
tanto da essere ribattezzata dalle compagne “Sorella Muta”, ma la vita le ribolle dentro, le fa
formicolare la pelle. Negli spazi attutiti della struttura, senza spigoli o
pericoli, nel silenzio che ottunde e rende le notti eterne, l’autrice ci dà
accesso al pensiero della sua protagonista, mentre poco alla volta rievoca
piccoli segmenti di passato: la madre anaffettiva, incapace di comunicare con
una figlia sempre respinta, allontanata; il padre, impegnato a sfuggire ai suoi
fantasmi e poi inghiottito dall’acqua; Ellis, l’amica più cara, bella e
perduta, la cui assenza genera un “buco
nero dentro di me pieno di chiodi, di pietre, di vetri rotti e di parole che
non ho più” (p. 29); l’allontanamento da scuola e tutto che va in frantumi;
i mesi nel furgone, la Seed House e la “stanza
dove le ragazze piangevano” (p. 27). E i
tagli sulla pelle, che permettono di tenere tutto sotto controllo, di far
sparire, anche se per poco, il dolore di fuori, e che per la prima volta lei
riconosce nelle compagne del centro, “la sua gente”, pure inizialmente
rifiutata come estranea.
Come rivela la postfazione al volume, Kathleen Glasgow conosce ciò
di cui scrive: forse anche per questo risultano taglienti, come i vetri o i rasoi di cui si armano le sue ragazze, le descrizioni del male che hanno dentro,
così come quelle del male che si fanno. Al lettore non è fatto alcuno sconto, ed è bene che ne sia
consapevole chi si avventura nella lettura, ma anche chi la consiglia a terzi.
Il baratro di dolore, paura, di vuoto e
disincanto, sul cui limitare si muovono le ospiti del Creeley Center è
difficile da scrutare, così come il senso di predestinazione che a tratti le
coglie, assecondato dalla voce maligna
che si fa strada dentro di loro, e suggerisce che non ci siano possibilità
per una vita diversa, per un amore vero, per qualcuno che le sappia vedere e
accettare oltre il limite della pelle e dell’anima ferite (“la vocina […] mi ringhia in testa e […] mi
dice: Sei sporca e disgustosa, idiota. Perché qualcuno dovrebbe volerti?”, p.
64).
“Sei tutta tua, Charlie.
Fino all’ultimo pezzetto” (p. 107), o ancora “Tutto quello che si rompe, comprese le persone, si può aggiustare. Ecco
come la penso io” (p. 113): la verità viene enunciata a più riprese nella
prima parte del romanzo, ma non può essere tale fintantoché non è la
protagonista a convincersene e ad agire di conseguenza, e serviranno molte
altre pagine per questo.
E poi ci sono io è un romanzo corposo, in cui l’autrice si prende davvero lo spazio
per costruire la trama e delineare i personaggi. Si intuisce presto, da fuori,
che la salvezza risiede nelle relazioni,
non tanto in quelle amorose, come potrebbe sembrare all’inizio, quando si
affaccia nella storia la figura di Mickey, un bravo ragazzo che riemerge dal
passato e tende a Charlie una mano, e un biglietto dell’autobus per l’Arizona.
Sono piuttosto le donne la vera chiave
di volta di quest’opera, in cui le
tinte del rosa vanno stemperate e risemantizzate. Donne accoglienti, donne
ruvide, donne che guidano e danno consigli, donne che sanno vedere, surrogati
di figure materne di cui Charlie è sempre in cerca, anche mentre prova a
respingerle per paura di essere ancora una volta ferita. E poi le amiche,
compagne, sorelle, coloro che possono capire il buio per averlo attraversato a
loro volta. Inizialmente Charlie non capisce, e il lettore percepisce molto più
di lei, il rischio di affidarsi invece
allo sguardo maschile per definirsi, per trovare prova del proprio
riscatto. Soprattutto se questo sguardo non è affettuoso come quello di Mickey,
ma torbido come quello dell’attraente Riley, prigioniero di una situazione
complessa, di buio e dipendenza. Si avverte chiarissimo, mentre si assiste
all’avvicinarsi dei due, il pericolo derivante dai sensi di colpa di Charlie, che la portano a sovrapporre a Ellis la
figura di Riley, che come lei le chiede aiuto in un processo di evidente autodistruzione, in cui la ragazza rischia
sempre di più di essere coinvolta. Agire incautamente, accettare i primi compromessi con la propria morale, violare le
regole, se da un lato produce un brivido di adrenalina, dall’altro rischia di impantanare nelle stesse sabbie mobili da
cui si era faticosamente riusciti a districarsi. Il bisogno inesausto
d’amore, la ricerca nell’altro di una completezza che andrebbe cercata in sé
assumono presto le forme della
dipendenza, che è un secondo tema rilevante all’interno dell’opera.
A livello narrativo, in funzione di quel mimetismo che si notava
in principio, dopo l’allontanamento di Charlie da St. Paul, la prosa inizia a
diventare più fluida, i capitoli più ampi e discorsivi. Charlie torna ad essere
protagonista della propria storia e questo ha una ricaduta anche sulla
scrittura.
La seconda sezione, nel focalizzarsi sulla seconda occasione di Charlie, da lei percepita come ultima, ne
mostra i piccoli passi, l’andamento zigzagante, la difficoltà a trovare un
proprio posto e a valorizzare il proprio talento. La tentazione di identificarsi con quello che fa è una
rete vischiosa (“sono io. È quello che
faccio. Quello che facevo, cioè.”, p. 299), per lei che spesso pensa che le sue cicatrici siano tanto
segnanti, non solo in senso fisico, ma anche morale, da renderle
impossibile aspirare a niente che sia bello e vero. (“Siccome io sono io, questo è il meglio che posso avere”, p. 277).
In questo tipo di pensiero però si annida la palude, il rischio di andare di
nuovo in pezzi. È interessante vedere come il campo semantico del frammento rappresenti un filo conduttore e
trovi continue declinazioni all’interno della trama. Ci vuole tanto tempo,
tanta strada (anche in senso letterale), a Charlie per capire che la metafora per descriversi non debba
essere per forza quella del vetro, o dello specchio, rotto, ma può essere anche
quella del puzzle, che può essere
ricomposto:
Io credo che il tuo dolore sia di un altro tipo. Forse il dolore di stare al mondo senza sapere come starci. […] Tutti vivono quel momento, credo, il momento in cui succede qualcosa di così… cruciale, che il tuo stesso essere va in mille pezzi. E a quel punto ti devi fermare. Passi molto tempo a raccogliere i tuoi pezzi. E te ne serve veramente tanto, di tempo, e non per rimetterli insieme com’erano, ma per assemblarli in un modo nuovo, non necessariamente un modo migliore. Direi più in un modo che riesci a sopportare, finché non capisci per certo che questo pezzo va qui e quell’altro lì. (p. 388-389)
E poi ci sono io è un romanzo che rischia di
essere penalizzato dalla sfumatura di rosa confetto della copertina, dalla
lieve stucchevolezza dell’occhiello, dall’illusione che sia qualcosa di molto
più leggero di quanto non sia in realtà, per chi lo guardi superficialmente e
non si soffermi sui tagli rossi che solcano le parole. L’equivoco può essere
alimentato forse da una conclusione che
arriva davvero “come un balsamo”,
necessario dopo l’impegno emotivo (e le lacrime, quasi assicurate) delle
pagine precedenti. Tutto torna, forse troppo, nei capitoli finali, del resto
non si può biasimare l’autrice, considerando anche il target di riferimento
immaginato per il romanzo.
Non si deve tuttavia cadere nell’errore di credere che il volume possa essere letto solo da un pubblico
adolescente che, anzi, probabilmente andrebbe accompagnato in una lettura
condivisa, discussa, mediata. Può, al contrario, essere una scoperta importante
anche per l’adulto che si trovi a confrontarsi con situazioni di fragilità, per
averne una rappresentazione intima, non idealizzata e tutt’altro che scontata.
Carolina Pernigo
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