Piccole cose
connesse al peccato
di Lorena Spampinato
Feltrinelli, 2023
pp. 207
€ 17,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Era quello il bello delle sere d’estate passate così: riscoprire al termine della notte un guizzo di felicità. Una voce interiore che dura un attimo e dice: è tutto bello, è tutto giusto. E già l’attimo dopo non esiste più. (p. 149)
Tornare nei luoghi dove si è trascorsa l’infanzia e non riconoscerli più. Lo
stesso, del resto, vale per le persone: Enza e Annina, cugine cresciute
insieme, come sorelle, ora faticano a riconoscere se stesse, e a riconoscersi
l’un l’altra. La vecchia casa dei nonni, che le accoglie per l’estate, diventa il luogo della memoria di ciò che pare
perduto per sempre, e viene recuperato solo tramite foto scolorite e reperti di
giochi e avventure passate, sempre con un lacerante
e ambivalente senso di nostalgia. Le due ragazze si muovono nel margine incerto, slabbrato, tra ingenuità e
maturità, guardano con fastidio e imbarazzo alle proprie madri, cercano un
modo, seppur diverso, per essere viste. Enza è prepotente, ha sentimenti più
netti, idee più chiare. È bella, bellissima, già sensuale. Annina invece è
testimone spesso silenziosa, più mite, disposta a mediare, sottilmente
invidiosa della cugina già donna, e della sua amica Bruna, come lei sfacciata,
intemperante, entrambe accomunate da qualcosa che la taglia fuori, che
sottolinea la sua estraneità:
Mi chiesi se in due o tre anni avrei raggiunto vagamente la loro bellezza. O almeno quell’indole accesa e febbrile, la luce maestosa che scorsi in loro quel giorno. (p. 20)
Tra le pagine si contrappongono due
mondi, due universi di senso, da un lato l’adolescenza cui appartengono
Enza e Bruna, dall’altro gli scampoli di infanzia di cui è ancora prigioniera
Annina, fin dal diminutivo del nome (“la
sua adolescenza m’esplodeva accanto e si portava appresso un imbarazzo nuovo”,
p. 61). Forse anche per questo gli atteggiamenti, gli sguardi, i corpi delle altre due appaiono misteriosi, a volte addirittura minacciosi. Il legame oscuro che
Annina percepisce tra loro la avvince, smuove nel profondo di lei un senso indicibile
di gelosia, muta l’innocenza in sottile,
inavvertita crudeltà.
A
questa prima antitesi se ne oppone un’altra: quella tra chi appartiene al
luogo, chi ne conosce gli inverni e la miseria, e chi invece lo vive da turista
passeggero, e resterà sempre di fondo uno straniero, mai del tutto integrato.
Anche in virtù di questa comunanza,
forzata e imposta, Annina, narratrice interna, tenta ostinatamente di
utilizzare un noi inclusivo per
saldare il suo sentire e quello di Enza, cercando di scavalcare la frattura
sottile che sente crearsi e allargarsi tra loro. Eppure, a ogni scalino di cui
l’altra la sopravanza, lei si sente più sola, più sperduta:
Qualcosa di duro come la nostalgia mi prese lo stomaco. Mi ricordai della giostrina luminosa con i cavalli che si incalzavano all’infinito rimanendo l’uno in fila all’altro. Pure lì sopra, Enza bambina gridava: Ho vinto, ho vinto io. Adesso cos’era accaduto? Era rimasta da sola sui cavalli che correvano in cerchio. E chissà se urlava ancora: Ho vinto io. (p. 100)
Ritorna
a più riprese nel testo il tema
dell’antico: la Sicilia filtrata
dai loro sguardi non è più familiare, ma remota,
senza tempo o al di fuori del tempo, radicata in un passato di cui serba
ancora le tracce. Il caldo torrido, che soffoca e consuma, rievoca le atmosfere
lontane della Magna Grecia, il timor
panico delle ore meridiane, in cui imperversano satiri e dei. Il confronto
con questo panorama familiare e sconosciuto, con le persone che lo abitano, che
paiono appartenere a un mondo differente, produce il medesimo senso di smarrimento.
Quando
Bruna le introduce al gruppo dei ragazzi, per la gente del paese piccoli
delinquenti che vivono ai margini, Enza e Annina ne restano avviluppate: Mirco,
Davide e gli altri sono il nuovo, sono
la trasgressione, sono la libertà. Primordiali
come il paesaggio sono allora anche i sentimenti che nascono nel gruppo, o
tra i singoli: invidia, paura, amore, amicizia. I non detti gravano sulle
ragazze come macigni. La crescita passa dall’attraversamento di moti dell’anima
sempre più complessi ed esperienze sempre più estreme, cui rimanda la
partizione del volume: disobbedienza, desiderio, colpa, peccato; questi ultimi
sempre inestricabilmente connessi, impastati. La vita viene identificata con il brivido che ne deriva, per questo
la salvezza promessa dall’ultima sezione suona quasi incongrua. Le feste sulla
spiaggia, le evasioni notturne dalla casa dell’infanzia assumono la forma di rituali di passaggio, dalle tinte quasi
tribali (“quella, pensai, era la
descrizione esatta di ciò che sentivamo tutti. Battiti. Tamburi. Rintocchi”,
p. 142). Il peccato diventa marchio sulla pelle, bramato come segno di
distinzione, di elezione, di appartenenza.
Nulla può, di fronte a tutto ciò, il mondo adulto. Quanto diverse sono le
figlie, tanto lo sono del resto anche le madri: Angela, quella di Enza,
un’eterna adolescente, bramosa di attenzioni e riconoscimenti, prigioniera
della sua frivolezza e di un passato di bellezza sempre rimpianto; Mela, mamma
di Bruna, è sciatta, sofferente, incapace di comprendere ciò che si agita
dentro la figlia, che vuole a tutti i costi tenere legata a sé; più concreta
quella di Annina, che mette paletti, fa appello alla vergogna (“più giovane di Angela, eppure nei modi più
vecchia. Madre. Infatti parla di fiducia. Di colpa”, p. 74), ma resta
figura lontana, mediata dal telefono, e quindi non in grado di arginare il
fascino eccitante delle trasgressioni a cui si abbandonano le ragazze, di
quelle “piccole cose connesse al peccato” cui rimanda anche il titolo. Il loro
ruolo resta fondamentale, perché le
figlie di definiscono in relazione, specificamente in opposizione a loro (“Le madri scavano abissi – precipizi, burroni
– e noi figlie ci cadiamo dentro per tutta la vita”, p. 90). Il destino
delle madri allunga le sue ombre su quello delle figlie, che si sentono
destinate a ripercorrerne le orme e si dibattono in un senso di prigionia. L’immagine dell’amore e dell’accudimento si
confonde per loro con
quella del controllo, del possesso, come rivela l’immagine della gatta
trovata dalle due cugine da bambine, fatta prigioniera e ingozzata in un
delirio d’affetto e di ricatti.
Al
di là della trama, che inizialmente segue le forme e i canoni del romanzo di
formazione, salvo poi allontanarsene bruscamente e in modo imprevisto, ciò che
colpisce maggiormente nell’opera di Spampinato è l’uso di una lingua densa, metaforica ed evocativa, che gioca su
accostamenti lessicali ricercati, in grado di creare immagini spiazzanti in chi
legge, contaminando il piano del reale
con il filtro ambiguo, contraddittorio, dello sguardo adolescente delle sue protagoniste.
L’autrice rivela grande abilità nel mostrare le fragilità dei suoi personaggi femminili, principali e comprimari,
nell’esplorarne le ambivalenze, nel descrivere la malinconia dolorosa del
diventare grandi. Questo passaggio, in Piccole
cose connesse al peccato, non viene romanticizzato, ma mostrato nel suo potenziale traumatico, nella lacerazione che comporta tra un prima e un
dopo, nella distesa di macerie e rifiuti che si lascia alle spalle. Più
rilevante di ciò che viene rivelato, è ciò che si cela allo sguardo, quel magma
di sentimenti ribollenti che non si possono esprimere, ma condizionano l’agire
dei singoli e le dinamiche del gruppo.
Non fu per curiosità che quella sera scendemmo in spiaggia con gli altri. La curiosità non ci avrebbe spinto tanto lontano. C’entrava piuttosto qualcosa che vagamente somigliava al vuoto, oppure al desiderio. Il vortice e la vertigine. Un movimento segreto dentro al petto. L’idea che ogni cosa potesse rovesciarsi con facilità; che le nostre vite – normali, senza grandi disperazioni – subissero l’oscillazione, il dondolio dell’esistenza vera. (p. 122)
Quasi
subito, all’interno dell’opera, monta una
tensione lieve, accresciuta da una serie di segnali, di premonizioni, di
qualcosa di terribile che deve arrivare ma è continuamente rimandato. La verità
si nasconde appena sotto la superficie e ha il sapore di un disvelamento tardivo, che porta a rileggere tutto ciò che si
pensava di sapere, o di aver compreso. Solo a posteriori infatti, per la
narratrice, è possibile fare i conti con gli accadimenti di quell’estate del
1996, rispondere alla domanda, fondamentale, “Chi ero io?”, emersa allora e poi continuamente ritornante nel
corso di una vita che, come tutte, dall’adolescenza è intimamente segnata.
Carolina Pernigo
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