E alla fine muoiono, La sporca verità sulle fiabe
di Lou Lubie
Bao Publishing, 2023
€ 27, 00 (cartaceo)
€ 12, 99 (ebook)
Non tuttә
sanno che in realtà, dietro quella bella storia a lieto fine di riscatto sociale
e rivalità femminile che fa così anni Cinquanta c’è uno scenario assai più
macabro, come per esempio nella versione della fiaba dei fratelli Grimm, in cui
le sorellastre si mutilano il piede pur di farsi entrare la dannata scarpetta,
oppure quello che accade in Biancaneve, in cui la matrigna non cade da
un burrone ma viene costretta da Biancaneve e dal novello sposo a danzare in
scarpe di ferro rovente fino a morire.
Quello che è veramente
geniale nel saggio a fumetti di Lou Lubie, E alla fine muoiono. La sporca
verità sulle fiabe (Bao Publishing) è l’uso di black humor abbinato
all’accuratezza nella ricerca di elementi di storia del folklore. Attraverso
un’analisi suddivisa in capitoli, Loubie è in grado di svelare i retroscena più
grotteschi, macabri, sorprendenti e perversi del fiabesco, partendo dallo
spiegarci quale sia il legame nella trasmissione delle tradizioni fiabesche
dalla forma orale a quella scritta, che si è poi consolidata nelle figure degli
autori europei a noi più noti, ovvero Giambattista Basile a Napoli, Charles
Perrault in Francia e i fratelli Grimm in Germania.
Eppure, Lubie non si
limita ad analizzare solo il contesto socio-culturale europeo, ma piuttosto si
muove alla ricerca di elementi comuni anche in tradizioni come quella africana,
asiatica o americana, e ciò che emerge è un comune quadro in cui gli elementi
che incombono con preponderanza sono ciclicamente gli stessi: molte delle fiabe
della tradizione che hanno colonizzato il nostro immaginario collettivo sono
sessiste, razziste, pregne di modelli culturali ormai superati e di quella
mascolinità tossica che è servita da carburante nell’alimentare un immaginario
binario dei ruoli maschili e femminili.
Non c’è d'altronde da
stupirsi se riflettiamo sul fatto che i racconti popolari, che nascono con lo
scopo di veicolare dei modelli e dei ruoli comportamentali prima in ambito
tribale e poi in un contesto più strutturato come quello della società
occidentale, servano a fornire delle linee guida da rispettare rigorosamente se
non si vuole correre il rischio di far crollare i fragili equilibri su cui il
patriarcato si sorregge.
Perciò, stando
all’interpretazione datata e misogina dello psicanalista Bruno Bettelheim che
Lubie riprende per decostruirla, se sei Cappuccetto Rosso e sei in una fase di
passaggio dall’età infantile all’età adulta, cioè stai per maturare
sessualmente e i tuo cappuccio rosso simboleggia il menarca e sei dunque una
potenziale preda per il lupo che è dietro l’angolo che ha captato che sei
finalmente ‘diventata una signorina’, è meglio che presti attenzione lungo il
sentiero verso la casa della nonna se non vuoi finire sbranata, o per leggerla
fuori dalla metafora del fiabesco, vittima di un aggressore sessuale, e tanti
saluti da Perrault al victim blaming. Oppure, se sei la moglie di un
serial killer come quella di Barbablù e hai scoperto che tuo marito si diverte
a liberarsi delle ex mogli ammazzandole e appendendole al soffitto e ti ha
detto di non entrare assolutamente nella stanza proibita di cui ti ha fornito
la chiave per testare la tua curiosità, Perrault ci insegna anche qui che la
curiosità femminile non è mai un bene, perché potresti accidentalmente
accorgerti di esserti sposata con Ted Bundy, altro che victim blaming.
D’altronde si sa che la curiosità uccise il gatto.
Lubie utilizza uno stile
grafico accattivante e primitivo che ricorda i fumetti di Sio, utilizzando
principalmente il colore blu e l’arancione, mentre l’edizione curata da Bao
Publishing vi viene presentata sarcasticamente proprio nella veste di un
librone incantato delle fiabe, con le pagine bordate di una rifinitura in oro e
un cammeo in copertina dove compaiono la fanciulla senza mani, il principe
accecato dai rovi di Raperonzolo e una Cappuccetto Rosso dal sorriso
beffardo.
Tra aneddoti e curiosità raccontati con irriverenza e arguzia, la francese Lubie, già famosa per altre sue opere come La mia ciclotimia ha la coda rossa e La ragazza nello schermo, editi in Italia per Comicout, si muove con grande abilità tra antropologia, scienze sociali, critica femminista e studi queer, mostrandoci tutto ciò che non sapevamo o che non prendiamo in considerazione quando pensiamo a un mondo patinato come quello delle storie per l’infanzia, che tutto sembrano fuorché racconti della buonanotte, ma che anzi lasciano emergere quel background macabro e grottesco che solo qualcosa di antico come un racconto che si perde nella notte dei tempi può manifestare, e che noi occidentali, nel tentativo di riadattare quelle storie alla nostra etica e ai nostri costumi, abbiamo edulcorato e semplificato, facendone una lotta tra luce ombra, tra bene e male. E come anticipa Lubie sin dal principio,
se ti chiami Timothée e hai otto anni, è il momento di cambiare libro.
Matteo Cardillo
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