Ogni giorno che passa, pur senza confessarlo, sentono il fastidio, l’impiccio di questa morte che dovrebbe arrivare e non arriva. Di una morte che è alla porta e non si decide a entrare. Di un’attesa che non è più nemmeno attendere, ma qualcosa di più contorto, imbarazzante, morboso. Ogni minuto aumenta in loro il senso del ridicolo, la sensazione di imbarazzo, la voglia di sparire al posto del defunto. Che manfrina inaudita inscenare la morte, far squillare le trombe, organizzare quel teatro con tanto di infermiera e medico, e tenere tutti, compresi sé stessi, col fiato sospeso. […] Elvira era un peso proprio mentre se ne stava andando. (p. 100)
La prima era non far arrivare una sirena spiegata, perché va bene star male, va bene intervenire, ma doveva rendersi conto che era agosto per tutti e che la gente in agosto non vuole essere turbata da spettacoli poco consoni, poco adatti alla vita della spiaggia e a tutto il resto, no? (p. 12)
Le chiede anche di non far indossare il camice a Barbara, la giovane, procace infermiera che si prende cura della moribonda, ma di farla vestire con un abbigliamento casual (così da dare nell’occhio, ma per altri motivi). Giani, due anni prima, dopo aver saputo che Tiziana dava lezioni di piano, le aveva mostrato un vecchio pianoforte che aveva in cantina, avevano parlato e l’uomo, che la sapeva lunga, aveva capito che Tiziana, nonostante il matrimonio e una figlia, era rosa da un acuto senso di insoddisfazione generale e da «cento mucchi di solitudine accumulati ai quattro angoli dell’anima per un totale di quattrocento infelicità diverse» (p. 14)
Tiziana aspetta che la madre muoia per mettere le mani sull’eredità e potersi permettere qualche ritocchino estetico, così da rendersi più desiderabile e scappare con Giani, piantando il marito Dario, che considera meno di una carta da parati.
Vive annusando rose che non esistono, trasformando il timido spiraglio di un momento nella lampada abbronzante della vita, senza darsi per vinto nemmeno in caso di sconfitta. (p. 19)
Gabriele potrebbe essere un personaggio positivo, ma probabilmente è solo un incosciente sognatore patologico. Quando è stato avvertito del malore improvviso della madre, era sul punto di prendere una decisione importante su un “progetto”, non proprio lodevole, un colpaccio che lo avrebbe tratto fuori da parecchi impicci, da realizzare insieme a Ubaldo, l’unico amico che ha. Anche lui, come Flavio e Tiziana è in attesa…che la madre tiri le cuoia.
Il medico che aveva visitato Elvira il primo giorno aveva detto che non sarebbe vissuta altre 48 ore, ma in realtà la donna si ostina a vivere, anche se in stato di incoscienza, si diverte a tenere i figli appesi ad un filo, in mezzo al caldo, in pieno agosto, con la gente intorno che si diverte, va al mare, si rilassa. Ognuno di loro cova dentro di sé pensieri meschini, davvero nessuno sembra piangere sinceramente per l’imminente perdita della madre, ma si augurano che l’attesa snervante si concluda presto nella sua morte: l’una, perché vuole mettere mano al grosso dell’eredità, gli altri due, perché vogliono liberarsi dell’ impiccio e rincorrere il sogno che sono stati costretti a lasciare in sospeso. Le pagine sono un confessarsi spietato e crudo dei figli di Elvira, di ipocrisie, invidie, desideri inespressi, frustrazioni, vendette, peccati, parole condite con veleno. Ovunque solitudine e senso di impotenza nei confronti della felicità e del successo altrui.
La superba penna di Archetti è stata una piacevolissima scoperta: i personaggi sono ben caratterizzati, i loro pensieri sporcano le pagine con graffiante sincerità. Non c’è retorica di circostanza, ma ironia, quell’ingrediente fondamentale che tempera i toni più cupi e lancia la storia oltre la staccionata della tragedia personale. L’autore lavora nel teatro e ciò si riflette nella costruzione e nella transizione di alcune scene, come quella in cui Flavio si sdoppia, immaginandosi uno spettatore comune che assiste ad un suo spettacolo teatrale.
Gabriele, Tiziana, Flavio: Archetti ora sembra che si prenda gioco di loro, contribuisca a metterli in ridicolo, ora si mostra empatico e compassionevole per le loro sofferenze. La prosa è uno spettacolo di fuochi di artificio, lo scrittore è maestro nell’accostare una parola ad un’altra per creare immagini efficaci e soluzioni narrative originali.
La luce naturale è un romanzo coinvolgente, scritto superbamente, che fa riflettere sui rapporti familiari, sulle illusioni infrante, sugli autoinganni.
La vita è il copione del nemico, pensa Flavio Calore, e ogni volta che non vogliamo una cosa, quella si realizza. Ogni volta che sfidi la sorte, la sorte ti sottomette, ti strazia, ti sventra. È la letteratura russa di tutte le nostre vite, non serve Dostoevskij, non serve chissà che cosa per saperlo. (p. 26)
Marianna Inserra