Un dramma corale nelle nevi dell'Alaska: "Blizzard" di Marie Vingtras


Blizzard
di Marie Vingtras
Clichy, marzo 2023

Traduzione di Fabrizio di Majo

pp. 184
€18,50 (cartaceo)
€8,99 (ebook)

Quando la neve si alza in tempesta, in Alaska, gli uomini si ritirano al chiuso, e pregano che Dio plachi la Natura. Nessuno esce: uscire equivale a morire nella distesa bianca. Nessuno, tranne una ragazza californiana, Bess, e il bambino che tiene per mano e che a un certo punto, nel furore della tormenta, le scivola via. 
Questo è l’inizio di Blizzard, di Marie Vingtras, esordio vincitore del "Prix des librairies" e appena pubblicato in Italia da Edizioni Clichy nella traduzione di Fabrizio di Majo. Perdendosi nella neve, Bess e il bambino lasciano alle loro spalle i pochi e stravaganti personaggi che abitano quella comunità alla fine del mondo civile, e che partiranno alla loro ricerca: Benedict, uomo rustico che ha perso le tracce del fratello anni prima e che ha riversato tutto l’affetto su quel bambino, l’ubriacone e violento Cole che passa le giornate col suo sodale Clifford, e Freeman, reduce della guerra in Vietnam, ultimo arrivato e guardato dagli altri con un certo sospetto. 

Ciascuno di loro racconta la vicenda dal proprio punto di vista: le loro voci interiori si alternano regolarmente e sembrano rivolte solo al lettore, quasi mai c'è comunicazione tra di loro e quando c'è è superficiale. Non riescono a raggiungere un vero confronto, soli nei loro drammi individuali e nella natura ostile. Così, al lettore è permesso di avere accesso a informazioni e retroscena di cui gli altri non sono a conoscenza. Blizzard si configura così come un romanzo corale in cui la parola resta l’ultimo baluardo umano possibile, insieme all’amore, per resistere alla legge della natura. Quella che abita lì è una microsocietà che vive in forma quasi ancestrale, in un rapporto con la natura di assoluto terrore e rispetto: natura che non è in alcun modo adorata o sublimizzata, come è uso dei turisti che abitano in città e non la frequentano che per qualche giorno di vacanza. Madre Natura in questo romanzo è una divinità crudele, che nulla regala e facilmente toglie, alle cui regole bisogna imparare a sottostare senza osare opporsi. La natura che si delinea in Blizzard sembra antecedente a ogni occupazione umana, in grado di sopravvivere 
malgrado il disboscamento, il petrolio sulle spiagge e la sparizione dei ghiacciai. Avrebbe potuto essere un secolo fa senza che si potesse veder la differenza, a parte qualche minimo dettaglio. (p. 44) 
Così, seguendo lo scorrere millenario del tempo geologico, anche il tempo umano sembra sospeso in una dimensione lontana, quasi di mito. In quella capsula di immobilità, i fatti della vita dei personaggi antecedenti all’avventura nella neve sembrano lontanissimi, oltre che segreti, il che contribuisce a conferire loro l’aspetto di fuggiaschi dal mondo civile, e forse dalle proprie responsabilità. Sono individui borderline, che si adattano più facilmente alla natura selvaggia piuttosto che alle regole dell’umanità: sono rimasti schiacciati, ciascuno a modo loro, dalla Storia. E infatti le uniche tracce di città e di Storia sono nei loro scorci sul passato: nei ricordi di Freeman, per esempio, c’è «la lotta per i diritti civili» dei neri, il servizio militare massacrante in Vietnam come via per l’integrazione e la distruzione causata dalla droga negli anni ’80-‘90: 
Non erano più le droghe che i soldati prendevano in Vietnam per resistere mentre gli stati maggiori chiudevano gli occhi. No, era molto peggio, un patto dell’America col diavolo. (p.131) 
In Blizzard la tempesta diventa scenario di un dramma umano intrecciato a vari livelli: ciascuno porta il proprio bagaglio di sofferenza, violenza e paura e lo espone al furore della neve. E mentre Bess cerca il bambino, e gli uomini cercano loro, tutti quanti si troveranno a fare i conti con i propri traumi irrisolti, che forse troveranno finalmente pacificazione alla fine della tempesta. In questo thriller psicologico incalzante, la scrittura di Vingtras è lineare e spontanea, plasmata sulle voci interiori e i diversi gradi di competenza linguistica dei personaggi, azzeccatissima eccetto qualche passaggio un po’ ingenuo. 

Perno paradossale del racconto è il bambino, l’unico la cui voce rimane assente nonostante tutti vorrebbero sentirla nella tempesta: interessante il modo in cui il suo personaggio, come in fondo tutti gli altri, si delinei attraverso ciò che pensano gli altri tra sé e sé. Quest’assenza di un regista esterno della narrazione rende tutto non verificabile, dunque, eppure per questo ancora più vero e affidabile: in mancanza di altri appigli, in questo delirio di elementi naturali, seguiamo con assoluta fiducia le orme lasciate nella neve.

Michela La Grotteria