di Paolo Malaguti
Einaudi, aprile 2023
pp. 208
€ 18,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
L'essere partiti per fare la Merica li ha obbligati a una scommessa, come quando da piccolo, sul sagrato della chiesa di Biadene, si giocava le sue biglie di terracotta contro i coetanei. Solo che la loro scommessa non ha vie di fuga, o la vinci e la vivi, o la perdi e la muori. Gioco tristo, senz'altro, ma per quel gioco lì Piero non si sente in colpa, mica l'ha inventata lui, la miseria. (pp. 169-170)
Per chi è un bisnente, abituato ad avere "due volte niente", a raccattare lavoretti per mettere insieme il pranzo con la cena, spesso lavorando la terra degli altri, un'occasione come quella di andare alla Merica e avere finalmente un pezzo di terra tutto proprio suona come un'utopia. Piero dei Gevori ha quindici anni quando ne sente parlare da alcuni compaesani nel paesino veneto di Biadene e, benché certi racconti gli facciano sgranare gli occhi, intuisce che dietro ogni «miraggio della cuccagna» (p. 45) deve nascondersi un inganno. Lui ha presente come sono i veri padroni, li vede sbirciando dalle finestre di villa Pisani, cercando di non farsi sorprendere: quello è un mondo ben lontano da cioò a cui la sua numerosissima famiglia può anche solo aspirare.
Eppure... Eppure la sorte porta i Gevori a vivere l'ennesima ingiustizia e, così, l'unica via d'uscita è una decisione difficile: il padre, un uomo di poche parole, decide di partire per il Brasile per il bene di tutti. Ad accompagnarlo, purtroppo, non ci sarà la famiglia al completo, perché gli ultimi nati sono ancora troppo piccoli per affrontare la traversata e la moglie è nuovamente incinta. Partiranno per il momento solo il protagonista, il primogenito Piero, sua sorella Lina, abbastanza grande da badare agli uomini e alla casa, e Tonín, dodicenne ancora molto legato alla figura materna.
Già i preparativi e la trafila per arrivare a Genova sono pieni di traversie e compromessi; per chi, come Piero e la sua famiglia, spostarsi dal paese è sempre sembrato assurdo, adesso ci sono nuovi accenti, usi e costumi da imparare e con cui convivere. La traversata, poi, è tutt'altro che semplice, specialmente se si considera che la maggior parte dei viaggiatori di terza classe ha sempre tenuto i piedi ben piantati in terra, prima di salire sul vapore.
E poi c'è la Merica, dove Piero e la sua famiglia scopriranno quanto può costare in termini di energia ma anche di adattamento la nuova vita. Sì, perché tutto va costruito. E il mato è tutto fuorché ospitale: i suoi animali non tacciono mai, nemmeno di notte, mentre gli indigeni minacciano attacchi alle comunità che avanzano a suon di disboscamento. Tuttavia, ad animare i Gevori c'è il pensiero della terra, «terra a non finire. Terra vera, che aspetta solo chi venga a prendersela» (p. 33). Ed è con questo desiderio negli occhi, simile a un costante abbaglio, che scopriamo pagina dopo pagina a cosa può arrivare una nuova comunità.
Tanti sono i migranti che, come i Gevori, hanno lasciato il Veneto tutto per ricominciare daccapo, e così bisogna imparare a ripensare che i propri valori, quelli con cui si è cresciuti, vanno riadattati all'ambiente nuovo. Si torna a vivere con l'essenziale, ben consci che l'imperativo categorico è restare in vita:
Ha presto inteso che nella vita, prima di tutto, bisogna restare vivi, e che non c'è nulla di più forte della famiglia per chi, come loro, è stato costretto a dare un calcio a tutto il resto, casa paese lavoro, per ripartire daccapo. (p. 139)
In fondo, Piero è già abituato a prestare attenzione alle cose fondamentali e, se non può averle, sa come adeguarsi: porta con sé la rassegnazione di chi ha vissuto nella miseria, ma, fortunatamente, nei suoi occhi di quindicenne brillano anche speranze per il futuro - una donna, un pezzo di terra, una famiglia. E le emozioni che vive sono spesso prive di un nome, perché non di rado «un po' gli mancano le parole, un po' gli sembra che andare a rivangare quello che non torna più sia sbagliato, come a voler dissotterrare chi è morto e sepolto» (p. 146).
In questo romanzo storico decisamente appassionante, Paolo Malaguti propone una storia di migrazione come tante che hanno riguardato famiglie italiane alla fine dell'Ottocento, e non a caso i vari capitoli sono aperti da epigrafi tratte da lettere e testimonianze di migranti che hanno fatto la Merica in quegli anni. Benché Malaguti si sia basato su una documentazione accurata, il romanzo non perde affatto in empatia; anzi, guadagna in verosimiglianza. Possiamo infatti leggere il romanzo anche come la formazione di Piero alla luce della migrazione, dunque in un contesto spersonalizzante e del tutto nuovo, in cui il ragazzo deve, anche a sue spese, comprendere cosa significa diventare adulto e fare i conti con i sentimenti («Piero ha scoperto come vanno le cose, e cioè che se un adulto non piange, è solo perché guarda da un'altra parte rispetto ai mali che si porta dietro», p. 167).
L'essenzialità di linguaggio di Piero, il ricorso a termini del dialetto veneto, così come l'apporto di sequenze riflessive mai fini a sé stesse renderanno la focalizzazione sul protagonista fortemente coinvolgente. E come in tutti gli altri romanzi di Malaguti che ho letto, quando si giunge alla fine, si vorrebbe ricominciare daccapo. Specialmente in questo romanzo, in cui l'ultima parte, che narra in sintesi gli anni a venire di Piero e di altri personaggi, si chiudono circolarmente molte delle questioni aperte all'inizio del libro. Così tutto sembra trovare il proprio posto e si può chiudere il libro con una grande soddisfazione aggiuntiva.
GMGhioni
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