di Tove Ditlevsen
Fazi, aprile 2023
Traduzione di Alessandro Storti
pp. 180
€ 15 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)
L’ultimo volume della Trilogia di Copenaghen, il memoir della scrittrice e poetessa danese Tove Ditlevsen, chiude il racconto crudo e lirico insieme di una vita tra scrittura, fragilità, dipendenze. A quarant’anni dalla scomparsa dell’autrice, morta suicida nel 1976, Fazi porta questo ultimo tassello nelle librerie italiane, affidando ancora una volta la traduzione ad Alessandro Storti che si misura con una scrittura tesa fra brutalità e lirismo. È una sensazione particolare leggere le pagine di una vita della quale conosciamo già il tragico epilogo e le difficoltà incontrate lungo il percorso. Lo è ancora di più per quel barlume di speranza con cui Ditlevsen chiude Dipendenza, il volume più oscuro e difficile, che affonda negli anni appunto della tossicodipendenza. Pochi anni dopo (il volume uscì per la prima volta nel 1971) la poetessa si toglierà la vita, è fatto noto. Ma quello che fa qui, in queste pagine piene di fragilità e abissi, è aprire per un attimo uno spiraglio di luce dopo tutta quell’oscurità.
Infanzia, il primo volume, scortica e ammalia per la scrittura brutale, le parole che graffiano la pagina, lo stile asciutto, le frasi secche; in Gioventù la parola è cesellata con cura artigiana, il dualismo brutalità-lirismo assume forme sempre più consapevoli; in Dipendenza parola e storia si intrecciano perfettamente nel racconto degli abissi dentro cui Ditlevsen precipita, appena ventenne. Ma c’è in tutti e tre i volumi ai quali ora finalmente abbiamo accesso nella loro interezza, un’organicità di fondo ben evidente, che si fonde su una lingua salda, modellata da chi della cesellatura ha fatto mestiere, la poetessa ovviamente, il traduttore. Due mestieri per molti versi diversissimi tra loro, ma accomunati da un lavoro artigiano sul testo, che risuona delle scelte accorte, delle parole, della punteggiatura; entrambi, in un certo senso, devono fare i conti con ciò che significa trasporre il testo da una lingua all’altra: quella del pensiero, per chi lo crea, quella della lingua d’arrivo, per chi lo traduce; entrambi, in modo simile, proveranno gioia e frustrazione nel vedere su pagina ciò che era nel proprio mondo delle idee.
Mi sono soffermata sulle parole perché hanno rappresentato il mondo di Tove Ditlevsen, fin dall’infanzia, anche se il rapporto con la scrittura non è stato facile:
Per me la scrittura è un po’ come nell’infanzia: una cosa segreta e proibita, piena di vergogna, da fare di nascosto in un angolino, quando nessuno vede. Mi chiedono cosa sto scrivendo in questo periodo e rispondo: «Niente». (p. 16)
Eppure a vent’anni Ditlevsen è una poetessa affermata, le parole l’hanno in qualche modo portata lontana dal mondo dell’infanzia, ma certi fantasmi e insicurezze saranno sempre lì, poco contano i riconoscimenti, le lodi di critica e pubblico, le frequentazioni intellettuali. Un fragile equilibrio che si intreccia con la ricerca di una normalità agognata ma mai del tutto conosciuta e che ha radici profonde, nell’infanzia, nel rapporto complesso con la madre e il suo giudizio crudele, nella fame di parole, di versi. Ha vent’anni, Tove, una vita nuova, un marito perfino:
Mi faccio una doccia, mi guardo allo specchio e rifletto sul fatto di avere appena vent’anni e di sentirmi come se fossi sposata da una vita. Appena vent’anni, e mi sembra che al di fuori di queste verdi stanze l’esistenza delle altre persone proceda a ritmo di timpani e tamburi, mentre su di me i giorni ricadono inavvertibili come polvere, l’uno identico all’altro. (p. 11)
Dipendenza è anche il racconto di questa prima età adulta, delle relazioni, i matrimoni falliti. Un percorso accidentato che Ditlevsen racconta ancora una volta con limpida brutalità, pagine veloci ma non superficiali di chi la brevità la maneggia con consapevolezza. Il primo matrimonio con un uomo molto più grande di lei, Viggo Frederik Møller, editore affermato nella cerchia intellettuale cui tanto aspirava a inserirsi: ma è un rapporto già destinato a esaurirsi. Mancano l’affetto, l’intimità, la reciproca stima.
È come se ci fossimo detti tutto quello che avevamo da dirci prima di sposarci e in un baleno avessimo consumato tutte le parole che dovevano bastarci per i successivi venticinque anni. (p. 15)
L’incontro con Ebbe, che diventerà il secondo marito, è una gioia abbagliante, ma fugace. Studente di buona famiglia, incapace di prendersi davvero cura di lei, di amarla; inconcludente, debole, dedito all’alcol. È la scrittura di Tove a fornire il più solido sostentamento, ed è anche la parte più vera dove esistere, dove essere se stessa. Come è sempre stato, fin dall’infanzia, davanti alla pagina bianca il mondo fuori si annulla, nel mettere ordine alle parole Tove mette ordine al suo mondo e trova ragione di esistere.
Da Ebbe avrà una figlia, ma iniziano anche gli aborti: il rifiuto, la scelta dolorosa, il pericolo di una pratica clandestina. Ditlevsen indugia sulla fisicità di quei momenti, il dolore, le stanze fredde, più facili da comprendere e narrare dell’aspetto emotivo.
Non mi rammarico del mio gesto, eppure negli oscuri labirinti del pensiero ci sono vaghe orme di piedini di bambino sulla sabbia umida. (p. 90)
Altri fantasmi, che affollano le stanze di Tove.
Fatalmente, sarà proprio in occasione di un aborto clandestino che inizierà la sua discesa verso la tossicodipendenza. È l’incontro con il terzo marito, uno specializzando in medicina che le somministra un anestetico: in quel velo che il liquido cala sul mondo, Tove trova la sua pace.
E se gli avessi detto la verità? Se gli avessi spiegato che ero innamorata di un liquido limpido in una siringa e non dell’uomo che era proprietario di quest’ultima? No, non gliel’ho detto, non l’ho mai detto a nessuno. (p. 111)
È una discesa nell’abisso, raccontata con brutale lucidità. Nessun monito, nessun proclama sul pericolo delle droghe, nessun pietismo: Ditlevsen racconta l’inferno così come l’ha vissuto, mentre il bisogno della droga consuma tutto il resto, a partire dal suo corpo stesso, ridotto all’osso, il suo matrimonio con Ebbe, l’infanzia dei figli che si perde nella mente annebbiata, nelle crisi di astinenza e nei ricoveri. Un inferno che inghiotte anche la scrittura. Non c’è spazio per nient’altro, solo per il bisogno di droga. E a fornirla, ad alimentare quel bisogno, il terzo marito, un uomo subdolo, mentalmente instabile, che la porta alla rovina.
Infanzia, gioventù, dipendenza: tre parole, tre momenti cruciali che hanno scandito la vita di Tove Ditlevsen e l’hanno racchiusa. Si intrecciano e sovrappongono, assumono sfumature di volta in volta diverse. Mai davvero superate. L’ultima, la più pericolosa, che l’accompagnerà fino alla fine, con la quale chiude appunto il proprio memoir:
[…] ancora oggi si desta in me quell’antica brama, non appena mi capita di farmi fare un prelievo di sangue, o di passare davanti alla vetrina di una farmacia. Non morirà mai del tutto, finché vivo. (finale, p. 177)
Debora Lambruschini
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