«È proprio sfortuna».«Cosa è sfortuna?»«La fine della lotta armata non appena siamo arrivati noi. Senza avere nemmeno iniziato. Senza aver fatto nulla per il nostro popolo».«Be', sì. Che schifo di ruolo ci riserva la Storia». (p. 48)
Cosa fare a questo punto? Aramburu costruisce una parodia fondata sul grottesco, che non punta a far ridere davvero, ma vuole far emergere tutta la povertà intellettuale dei suoi protagonisti. In effetti, come ha sottolineato Aramburu al Salone del Libro, «il male non è necessariamente legato all'intelligenza di chi lo compie». Durante l'incontro, Mario Calabresi ha fatto notare che i personaggi di Figli della favola sono donchisciotteschi: intraprendono battaglie assurde e perse in partenza, come portare avanti da soli una lotta armata senza armi, e, insomma, si ritrovano soli con un'ideologia che legittimava il crimine fino a poco tempo prima. A scenario cambiato, è venuta a mancare la terra sotto i piedi di Joseba e Asier.
Con pochissimo denaro e ancor meno cibo, i due sono nascosti in una cascina in Francia, quando scoprono cosa è accaduto all'ETA. Qui vivono alla bell'e meglio con i padroni di casa, una donna a dir poco libertina, il marito molto più anziano di lei e poco desideroso di stare al mondo, e i loro animali. Dunque, Joseba e Asier si trovano esuli e nascosti quando nessuno li ha condannati e soprattutto nessuno li sta cercando. Con un'ansia quasi persecutoria, cercando di spendere sempre pochissimi dei loro risparmi, compiono piccoli crimini per rivendicare chissà quale rivoluzione e puntano a fondare una nuova organizzazione. Intanto, Joseba pensa alla sua donna, che avrà ormai partorito suo figlio o sua figlia, mentre Asier non fa che ribadire quanto occorra diffidare delle donne. Se ogni tanto i protagonisti si chiedono cosa fare, poi torna loro la convinzione che basti avere «gioventù, energia e fede» (p. 62) e amore per il proprio popolo per provare a scrivere la storia.
È proprio l'incredibile divario tra le aspirazioni altissime dei personaggi e i gesti minimi, in una realtà prosaica a rendere Figli della favola tragicomico in molti suoi passaggi. Ecco che i due protagonisti, amici in nome di un'ideologia, ma sostanzialmente soli e senza una direzione chiara, procedono a tentoni, e così anche i viaggi che dovranno affrontare vengono intrapresi senza un piano, all'insegna dell'improvvisazione. E le donne in qualche modo arrivano e mostrano tutt'altra intraprendenza rispetto ai protagonisti: sono risolute, determinate, e sanno come scuotere questi eterni bambini.
Nonostante l'ambientazione storica precisa, per Aramburu l'imperativo era rendere la condizione umana di due ragazzi che si sono auto-emarginati per un ideale, continuando a «mostrare come la Storia si rifletta sulla storia del singolo». Risponde a questo desiderio il lavoro di revisione, durato alcuni anni, che ha portato Aramburu, dopo una prima redazione, a riprendere Figli della favola: è stato difficile mantenere un equilibrio tra il suo aspetto triviale e il desiderio di mostrare il terrorismo per quello che era, con la sua vera faccia.
E, in effetti, per quanto i personaggi possano talvolta suscitare un sorriso, questo non è mai privo di una certa amarezza. Lo stile giocoso, a cominciare dall'estrema spontaneità dei dialoghi, rende Figli della favola una storia irriverente verso un'ideologia, ma rispettosa verso i famigliari di chi non c'è più. L'empatia viene volutamente tenuta lontana, perché l'ironia amara ricorda al lettore di mantenere una distanza critica, di provare tutt'al più pietà per questi personaggi patetici che puntano all'eroismo, non avendo invece valori saldi a cui aggrapparsi come individui.
GMGhioni
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