Può salire verso la vita che non ha mai avuto o scendere verso la vita che non vuole. (p. 54)
Un altro libro sul Covid? Ammetto che l'ho pensato all'inizio, leggendo il risvolto di La vita senza i figli, e questo mi ha portato - colpevolmente - ad accantonare l'opera per qualche settimana. Poi, sono stata attirata dalla scrittura di Roddy Doyle che, vincitore anche del Booker Prize col suo Paddy Clarke ah ah ah!, mi ha più volte fatto ammirare la sua capacità di raccontare la realtà con ironia. Qui, di ironia, ce n'è meno... ma che libro!
Dopo i primi anni di entusiasmo durante la stesura delle recensioni, ho imparato a centellinare i superlativi; ammetto però che sono tentata di metterne un paio in fila in questo caso: vorrei dare a La vita senza figli la coccarda di una delle opere che meglio hanno saputo sfruttare la misura breve del racconto per raccontare i pensieri, il carattere, le azioni e le intenzioni dei personaggi.
Siamo infatti davanti a dieci racconti, che hanno qualcosa in comune: un protagonista alle prese con il lockdown. Può essere uomo o donna, può trovarsi a suo agio all'idea di chiudersi in casa in un suo microcosmo, o, al contrario, può sentirsi imprigionato. Quel che è certo è che si misura con la diversa realtà in cui si trova, con i provvedimenti imposti nella propria città (ad esempio, a Dublino, a Londra, a New Castle,...), con più tempo per guardarsi dentro, per fare i conti con la propria frustrazione per essere disoccupato, con una malattia appena diagnosticata o con quella di un proprio caro. C'è chi, contravvenendo alle regole, viaggia e si muove, alla ricerca di qualcosa di difficile da trovare, come un figlio che non si vede da anni o chi rivendica la ritrovata libertà dai vincoli familiari. E chi resta deve imparare a fare i conti con un'assenza da cui è difficilissimo distrarsi, ora che si è chiusi in casa e tutto parla di chi se n'è andato. In fondo, questo vale per tutti i personaggi:
Il lockdown ha strappato via l'imbottitura. Non ci sono orari, lavoro, viaggio di andata e ritorno. Niente che lo salvi. (p. 92)
Non tutti sono personaggi che si assolvono, né che cercano assoluzione: alcuni si confrontano sul loro vivere ormai senza figli, perché questi sono grandi e lontani, ad esempio, o perché trattenuti in un'altra città dal lockdown. E non è affatto detto che questa dimensione sia oggetto di nostalgia o rimpianto particolari!
Accanto a loro ci sono poi, certamente, alcuni personaggi più edificanti, di cui comunque Doyle rivela le fragilità, a loro modo eroiche, come nel caso di un'infermiera, giornalmente alle prese con il Covid e gli improvvisi peggioramenti di salute dei suoi pazienti e con le tante forme d'amore e di accudimento che, a distanza, i "congiunti" hanno provato a tenere vive.
Quelli che ho citato sono solo alcuni scampoli della tanta umanità raccontata in queste poco più di duecento pagine. Pagine in cui Doyle affida molta efficacia del racconto ai dialoghi tra i personaggi, introdotti solo se proprio è necessario dai verbi dichiarativi, ma per lo più lasciati con la loro nudità teatrale, calibrati e vibranti. E lo stesso vale per la prosa, perlopiù paratattica, con netta preferenza per le frasi brevi, a volte brevissime. Frasi che, a dirla tutta, si offrirebbero a facili critiche, se non fosse che in ogni manciata di parole c'è una densità particolare, una leggerezza solo apparente. E così alla fine di La vita senza i figli sembra di aver incontrato molti più personaggi di quelli presenti in realtà, perché le loro storie ci hanno assorbito una per una senza scampo, con l'intensità propria di un grande narratore, perfettamente a proprio agio nella forma breve.
GMGhioni
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