La morte che profuma di rose Baccara e scogli di Marechiaro: "Morte per grazia ricevuta" di Simona Pedicini per Fandango


 

Morte per grazia ricevuta
di Simona Pedicini
Fandango Libri, aprile 2023

pp. 192
€ 16,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

Mi ero convinta che il morire fosse tutto nel tentativo di afferrare, senza riuscirci, le cose tra le quali si è sempre vissuto. Mi ero convinta che il morire fosse nel silenzio di quel luogo in cui ero stata rinchiusa. Ma anche che la morte non durasse per sempre. (p. 24)
Simona Pedicini, autrice pugliese all'esordio con Fandango Libri, con il suo Morte per grazia ricevuta ci conduce a Napoli, alternando i piani temporali per seguire le vicende di Sofia, una ragazza cresciuta in una famiglia in cui il padre, don Domenico Ruggiero, è il classico padre-padrone, e la madre, donna Elvira Ruggiero, pare provare amore solo per le madonne, il primogenito Antonio e un Divino Bambin Gesù di cera. 
Sofia subisce le punizioni del padre, che lei di proposito chiamerà sempre don Domenico, sotto forma di segregazioni nella "stanza del silenzio", di imposizioni, di privazioni e maltrattamenti di ogni tipo, solo perché femmina. Potrebbe trovare conforto nella madre, ma la donna (che pure riserva delle sorprese) non fa nulla per evitare la sofferenza della sua unica figlia, preferendo dedicarsi alle preghiere, alla cura del Gesù Bambino e a "certi servizi" di cui Sofia non sa nulla. Il modo in cui donna Elvira si muove nello spazio è malinconico, grigio e cadenzato da una litania ben specifica: "requie, repuoso, refrische, cunzolo". 
Si tratta di una nenia funebre molto conosciuta a Napoli, la cosiddetta "Litania delle anime pezzentelle", ovvero delle anime dei morti, pezzentelle perché abbandonate in vita o nella morte, scomparse dai ricordi: un modo per alleviare le sofferenze delle persone care che non ci sono più e che vengono così accompagnate nel transito.
Ogni sera io e mia madre restavamo sole, in silenzio, nel buio di quelle nostre stanze, vite senza luce, con i nostri figli morti. (p. 71)
Sofia, fin da bambina, si innamora di una sua compagna più grande (vedremo solo alla fine di che tipo di "compagna" si tratta), con la quale intesse un rapporto particolarissimo fatto di giochi in una stanza tutta rosa, di visioni oniriche, di sofferenza e tradimenti. Tuttavia il focus del romanzo non è affatto su questa storia d'amore, ma sulla sua evoluzione stabilita dal destino di certe bambole, onnipresenti all'interno dell'intreccio: la bambolina souvenir di donna Elvira, che a sua volta richiama un tragico lutto tanto importante anche per Sofia, una bambola-figlio dagli occhi blu, la bambola di Gesù Bambino, destino che le vede relegate sempre all'interno di un cassetto, nascoste alla vista della gente, degli uomini, di don Domenico, di Gerardo, il futuro marito di Sofia che, purtroppo, risulterà tanto terribile quanto suo suocero.
Stringendo fra le braccia quel tuo figlio così bello vestito di pizzo bianco, salii sulla sedia rimasta al centro della stanza e fissai il mio volto riflesso nel vetro della finestra. Poi mi spostai leggermente a sinistra in modo che il mio viso si sovrapponesse a quello della Madonna delle Galline. Adesso ero la Madonna con in braccio il suo bambino. (p. 74)
Questo bambino, questa bambola della ragazza di cui Sofia è innamorata, è un simbolo potente che rappresenta sia il peccato - una macchia di sangue e pizzo - sia il legame tra le due. Una sorta di espediente grazie al quale le due potranno amarsi. Sofia però non sa che l'unica consumata da questo sentimento è lei. 
Nel corso degli anni - le linee temporali si intrecciano - la protagonista cercherà di rinnegare questo suo sentimento proibito, tanto che si trasferirà a Milano e si sposerà, partorendo una figlia lei stessa, Martina, una bambina (leggiamo "bambola") «che puzza di latte rigurgitato» (p. 103) e che non incontrerà mai l'amore della madre. A un certo punto della storia, Sofia tornerà a Napoli nella casa paterna, capirà cosa sono quei "certi servizi" tanto misteriosi a cui provvedeva donna Elvira e scoprirà che a quelli era destinata, perché:
io e mia madre non avevamo la vita per essere belle, avevamo la morte [...] io e mia madre avevamo la cura delle femmene di malammore che la morte rendeva libere da quegli uomini, da quel Dio che a loro aveva imposto vite e corpi. Eravamo tutte femmene di malammore. Eravamo tutte belle nella morte. (p. 140)
Ecco la protagonista del romanzo: la morte. La sinossi in questo senso è ingannevole, perché non la menziona, pone l'accento sul rapporto tra Sofia e "la creatura", la sua amica tanto desiderata a cui si rivolge col tu, come se vi parlasse; eppure non si fa menzione di Antonio, del fratello importantissimo nell'economia del romanzo né della questione delle bambole, altrettanto cruciali. Ma soprattutto del rapporto di Sofia con le femmenelle (termine meno comune per indicare i femminielli/femmenielle partenopei) conosciute dopo il funerale di una loro compagna. 

Dico che la morte è la protagonista del romanzo per vari motivi: le bambole nient'altro sono che persone inanimate, congelate in una perenne stasi, eppure tanto simili a noi. Nel romanzo si trasfigurano, diventano vere e vive, assumono un ruolo centralissimo, parlottano e piangono, molto più dei protagonisti. In secondo luogo, l'abbondanza di funerali: l'autrice, questa è una piccola curiosità, è difatti una tanatoesteta, tanatoprattore e esperta in cosmesi funeraria, oltre che studiosa di Storia dell'anatomia sul corpo femminile e Storia della Sacra Sindone; dunque, si può affermare, una profonda conoscitrice del volto della morte, in tutti i sensi. Ecco, vi è nel romanzo, a questo proposito, un passaggio (p. 146) in cui Sofia trucca e depila il corpo di una femmenella deceduta che mi è piaciuto molto, tanto che avrei voluto che si approfondisse questo aspetto.
Mia madre le aveva chiamate "'e voci 'e notte, de' e femmene 'e malammore". Ero io a dovermene occupare. (p. 146)
Parallelamente alla scoperta della sua vocazione, Sofia continua a inseguire il suo grande amore, che non è più chiaro se sia vivo o frutto di una fantasia onirica, circondato da rose Baccara dal profumo stordente e bagnate di lacrime, metafora di sangue e sofferenza e lutto (presenti in copertina). Anche il profumo, gli odori, sono caratterizzanti all'interno del romanzo: una ripetizione continua di "talco che sapeva di alghe, di scogli, delle rocce bagnate di Marechiaro" a ricordare l'odore del suo amore, come si ripete spesso la litania delle anime pezzentelle, ogni qual volta vi è una morte in arrivo, e le "rose Baccara bagnate di gocce, forse di pioggia o di rugiada, forse lacrime".

Pur essendo ambientato a Napoli, apprezzo molto che l'autrice non sia caduta nell'errore di raccontare la città con i soliti cliché: non ne descrive le sue piazze né i suoi contrasti, Napoli è un luogo come un altro, come Milano, senza alcuna retorica o esaltazione illuminata.
Ciò su cui cade in errore Pedicini è l'uso del dialetto, nota dolente: all'interno del romanzo si fa un uso consistente nei dialoghi del dialetto partenopeo, specialmente quando a parlare è donna Elvira o le femmenelle o la gente del popolo in generale. Insisto sempre nel dire che, nel caso del napoletano, non parliamo mai di un semplice dialetto, ma di una lingua vera e propria e come tale ha delle regole da rispettare.
Il termine "trouva" non è corretto e al suo posto ci andrebbe "truvà", per esempio; "'sto fieto 'e suonno" dove 'sto è più romanesco, in napoletano si scrive 'stu; "dint' 'o buio" non si usa, a Napoli si dice "dint'o scuro", e molti altri. In generale, mi pare che il trattamento del dialetto sia superficiale, i passaggi risultano non credibili, poco scorrevoli, si incagliano in accenti e apostrofi scorretti e in modi di dire che non sono d'uso comune. Ho l'impressione che sia stato maneggiato in modo raffazzonato, come usando un traduttore digitale (dico come perché chiaramente non so come abbiano gestito in fase di scrittura ed editing la questione, ma la traduzione è meccanica, macchinosa).
Assolutamente credibile e piacevole risulta invece essere il lavoro, purtroppo isolato, di Pedicini sul mix tra italiano e dialetto che si sforza di usare una delle femmenelle, di cui riporto qui il passaggio che mi è piaciuto tantissimo:
A me mi serve di conoscere la lingua, dottorè [...] sapete com'è...facendo le serenghe a tanta gente, vengo chiammata in tutta Napoli. Tengo pure frequentazioni importanti. Ma turnamme a nuje...(p. 149)
Ecco, qui a parlare è una donna istruita più delle altre, ma pur sempre del "popolo basso". Si percepisce subito che tipo di persona stia parlando, il discorso è coerente, incisivo. Non appena però passa al dialetto vero e proprio, l'impalcatura cade.
A prescindere dalle parti dialettali, che purtroppo incidono in negativo, la scrittura di Pedicini è chiara, elegante anzi, quindi (mia ipotesi personale, dunque assolutamente opinabile) sarebbe stato meglio concentrarsi solo sulle sue doti narrative o trattare i dialoghi dialettali con molta più attenzione. Lo dico senza timore, perché balza agli occhi di chiunque abbia dimestichezza con il dialetto partenopeo o lo parli quotidianamente.

Il romanzo si inserisce nel filone più che contemporaneo di romanzi che parlano di Napoli, arricchiti da amori non convenzionali o da rapporti familiari complicati: penso a Uvaspina di Monica Acito, Nannina di Stefania Spanò, Althénopis di Fabrizia Ramondino (appena uscita la sua ristampa per Fazi), Almarina di Valeria Parrella.

Deborah D'Addetta