Sotto il cielo di via Margutta a sognare con gli artisti: amori e creatività all’ombra del fascismo. I ricordi di una Roma che non c’è più nel romanzo d’esordio della linguista Valeria Della Valle


La strada sognata
di Valeria Della Valle
Einaudi, marzo 2022

pp. 192
€ 14,00 (cartaceo)
€ 7,99 (eBook)


La strada l’aveva sognata una notte: era coperta di neve, silenziosa e stretta. Livia non ci aveva pensato più, ma quando, dopo mesi, c’era capitata all’improvviso, l’aveva riconosciuta. Era proprio la stessa, anche se mancava la neve: i cancelli si aprivano su cortili grandi, con la ghiaia e le panchine di marmo, le statue nelle nicchie, i glicini attorcigliati alle inferriate, le fontane ricoperte di muschio. Quella strada la conoscevano tutti, perché c’erano gli studi degli artisti e le botteghe degli artigiani: si trovava nel centro della città, ma rimaneva appartata e in disparte, come se fosse un’isola. (p. 3)
L’ouverture del libro ci trasporta subito in un’atmosfera da sogno, quasi fiabesca, tipica dei ricordi delle cose amate e perdute che rimangono nella nostra memoria e che ogni tanto riaffiorano ad illuminare la nostra vita come barlumi che gettano squarci sul grigiore del tempo presente. Questi sogni sono bianchi come il marmo delle statue e delle panchine e azzurro-violetti come i glicini in fiore aggrappati alle inferriate presso i cancelli che proteggono l’accesso a luoghi segreti.

La strada sognata è il romanzo d’esordio della linguista Valeria Della Valle, un romanzo di formazione dalla struttura interessante, perché è composto da dieci racconti uniti da un unico filo rosso: la strada sognata dalla protagonista del primo capitolo, Livia. 
Per comprendere il senso dell’opera, i primi due capitoletti sono imprescindibili, mentre alcuni racconti potrebbero anche essere letti stand alone. Si è detto che si tratta di un romanzo di formazione: nel primo capitolo conosciamo Livia, un’adolescente col sogno di diventare artista, contrastata però dalla rigida famiglia patriarcale, da cui non si sente né capita né amata e verso la quale prova un senso di estraneità, addirittura di repulsione fisica, soprattutto nei confronti del padre:
E poi c’erano dei ricordi confusi, che ogni tanto le tornavano addosso all’improvviso, e che la lasciavano, tutte le volte, piena di disgusto: erano immagini e sensazioni che non sapeva spiegare. Le sembrava che una mano la toccasse, la palpasse attraverso i vestiti. (p. 5) 
La scrittrice, che ho avuto modo di ascoltare a un festival letterario organizzato nella mia città, non ama rivelare troppo quando la sua penna tocca questi passaggi che suggeriscono una qualche forma di molestia da parte del genitore sulla figlia, non ha voluto approfondire, ma solo evocare quel senso di rifiuto che diventa anche disgusto fisico verso i suoi genitori, che deridono il suo sogno di diventare artista.
Il padre è un rigido e formale generale dell’esercito e la moglie è succube di lui, sorda al bisogno di amore della figlia che sta crescendo:
[…] la parola mamma non la sapeva o non la voleva pronunciare: però da quando era piccolissima, aveva trovato una sostituzione che a sua madre, che si chiamava Marta, non dispiaceva: diceva Ma’, che per Livia voleva solo dire Marta, non mamma. Il loro rapporto si basava su questo equivoco, e Livia lo sapeva, anche se non avrebbe saputo spiegarlo servendosi delle parole: sapeva che quella donna dalle ossa forti e dalle mani pesanti non era stata capace di difenderla e proteggerla dal contatto con quelle mani dure e scure che ogni tanto sentiva di nuovo su di lei. 
Le parole: una linguista di grande fama come Della Valle non poteva non renderle protagoniste insieme ai personaggi principali, neppure quando si cimenta in un’opera diversa dai dizionari e dalle grammatiche!

Nel primo capitolo conosceremo Arletta, l’amica artista di Livia, di origini ebraiche e - come Della Valle ha rivelato nel corso dell’incontro - soggetto della copertina del libro: si tratta del quadro che la scrittrice ha in casa, ereditato dalla madre pittrice, e che le ha poi ispirato questo romanzo. Come nell’opera, così anche nella realtà, di quella ragazzina ebraica, la madre dell’autrice non ha più saputo nulla, probabilmente deportata in qualche campo di concentramento non ha potuto più ritornare a Roma.
Conosceremo dal secondo capitolo in poi anche Adele, detta Dede, la figlioletta di Livia e di Giulio Doni. Di lei vedremo capitolo per capitolo la crescita fino alle pagine finali in cui torna a Roma, ormai anziana. Dede nasce e cresce in via Margutta, i suoi genitori, artisti che conducono una vita alquanto bohémienne, senza entrate fisse, senza farsi influenzare da idee politiche, sono liberi di lasciarsi condurre per mano esclusivamente dalla loro ispirazione. Livia dipinge, Giulio scrive, non si sa bene cosa se romanzi o articoli per giornali; quando arriva per posta un’enorme busta contenente la ricompensa per i suoi scritti, la famiglia corre a festeggiare al ristorante con gli amici, artisti come loro.

La storia si ambienta nel ventennio fascista, ma il libro non fa mai riferimento alla data, mai a Mussolini, eppure  lo sfondo è disseminato di indizi che rimandano a quel periodo buio della nostra storia. Ci sono diversi personaggi, alcuni realmente esistiti come De Chirico, il fotografo Arturo Ghergo. Si parla del mito americano, fanno capolino tra le pagine del racconto L’amica americana i primi segnali del consumismo:
Queste riviste Dede le sfogliava per ore, seduta sui gradini della scala di legno: le pagine erano lucide e pesanti, e mandavano un odore buono di stampa costosa che Dede non aveva mai sentito prima. Quell’odore si mescolava, mentre guardava le fotografie e i disegni, con un mondo che racchiudeva ai suoi occhi, tutte le bellezze e le meraviglie possibili. C’erano frigoriferi immensi, con gli sportelli bombati e le maniglie luccicanti, e tostapane, e frullatori, e strani arnesi cilindrici in cui si infilava la biancheria, che ne usciva perfettamente pulita. (p. 130)
Un romanzo della doppia formazione, verrebbe da dire: quello della crescita di Livia e quella di Dede, sua figlia che chiude il libro con la sua ultima passeggiata nella strada che sua madre aveva sognata da bambina. Entrano in punta di piedi nella narrazione altri personaggi tutti legati alla “strada sognata”, in particolare Ditta, diminutivo di Giuditta, alla quale la scrittrice ha riferito di essere particolarmente affezionata e vicina: questa donna, insieme a Nancy Smith de L’amica americana sfugge ai cambiamenti, non li comprende e rimane indietro rispetto agli altri personaggi dei racconti. È una delle figure più malinconiche e interessanti tratteggiate nell’opera. Ditta vede i cambiamenti del suo corpo, i segni dell'età che avanza, il suo decadimento fisico, ma solo la strada degli artisti non cambia mai.
La scrittura dell’autrice è evocativa, delicata come una carezza, suggerisce i luoghi, spesso non li nomina talvolta, - proprio come se la scrittura fosse un lungo sogno - ma dietro ai nomi di artisti vi sono segni che rimandano a uomini e donne veramente esistiti, dietro immagini trasfigurate vi sono i monumenti riconoscibili di Roma eterna. La strada sognata è via Margutta, e nel libro non è stata mai nominata, è bastato definirla “la strada degli artisti”, delle botteghe degli artigiani che popolavano quella meravigliosa strada da sogno negli anni Venti e Trenta del secolo passato. 

Era stato allora, solo allora, che Livia l’aveva riconosciuta: era la strada sognata, la strada con la neve, con i cortili e le statue, e ora lei era proprio lí, anche se, al posto della neve, c’era il sole, e metà della strada era in ombra. Trovarsi in quella strada le aveva dato, all’improvviso, un senso di pace e di contentezza. Camminava come se ci fosse già stata altre volte, in quella strada: guardava i cortili, riconosceva gli alberi, le statue, e in alto le terrazze, ascoltava i rumori e le voci che venivano dalle botteghe buie degli artigiani, un’orchestra mista di suoni e strumenti vari, martelli, seghe, carta vetrata, e odore di colla e di vernici. Quei suoni e quegli odori, e la luce dorata che avvolgeva la strada le davano una strana euforia: le facevano sentire di essere finalmente a casa, e che quello, e solamente quello, era il posto in cui voleva vivere. (p. 45)
Marianna Inserra