Le divoratrici
di Lara Williams
Blackie, gennaio 2021
Traduzione di Dafne Calgaro e Marina Calvaresi
pp. 325
€18,90 (cartaceo)
Lo ricordo
benissimo: era il 2019, stavo scegliendo il tema della mia tesi di laurea
magistrale, e facendo ricerche sulle ultime uscite che avessero scosso il
panorama della letteratura contemporanea femminista di lingua inglese,
continuavo a incappare in Supper Club di Lara Williams. Quell’anno vinse
il Not the Booker Prize del «The Guardian», un contraltare dal nome
palesemente ironico ai più blasonati premi letterari: ed era chiaro fin
dall’inizio che ai premi di quel tipo Lara Williams non puntava proprio. Supper
Club veniva descritto come un Fight Club femminista, descrizione che
– ah, la mia ingenuità! – mi fece pensare a qualcosa di empowering, qualcosa di
simile a quel femminismo neoliberale un po’ glitterato e un po’ sporco che si
fa passare per un femminismo universale, ce n’è per tutti, prego, leggi questo
libro e ci sarà spazio anche per te. Lo comprai in versione digitale per
poterlo leggere anche in Italia, e scoprii subito che il libro aveva ben poco
di Fight Club, ma, in effetti, aveva molto di Chuck Palahniuk. Perché era
pieno di corpi, e parlava del trauma di essere umani – anzi, più
specificatamente, di essere donne – e di avere un corpo tanto vulnerabile
quanto quello che c’è sotto. Trauma, dal greco, “trafittura, perforamento”: un
corpo che cede il suo status di frontiera invalicabile e che si buca, rivelando
a tutti la mollezza dei tessuti interni, del proprio cuore, del proprio
stomaco.
La protagonista
di Le divoratrici – titolo dell’edizione italiana uscita per Blackie nel
2021 e ormai inseparabile dall’identità della casa editrice – si chiama
Roberta. In un andirivieni tra passato e presente, la vediamo annoiarsi nel suo
lavoro senza senso, stringere una forte amicizia con la sua collega Stevie, fondare un club di
donne unite dalla cicatrice di una paura, e organizzare feste in cui
l’incredibile talento culinario di Roberta si sfoga nel creare banchetti che le
donne divorano senza freni, abbandonandosi ad alcol, droghe e musica fino alla
mattina del giorno dopo. Detto così, sembra davvero divertente, empowering,
glitterato e un po’ sporco… giusto?
Poi, una notte, passando di fianco a una trattoria italiana vicino casa, un ristorante quasi sempre deserto, aveva visto un gruppo di donne che, vestite di colori fluo, ballavano come pazze e mangiavano con le mani. […] Si era rivista da sola, mentre si trascinava nel mondo alla ricerca di conforto, senza mai rivolgere un pensiero alla gioia. Era proprio quello ad averla colpita mentre guardava il Supper Club dall’esterno: la gioia. Sembrava una cosa da prendere in considerazione. (p. 122).
L’illusione regge
finché regge il piano ordito dall’autrice, quello di farci calare nella vita di
Roberta come se fossimo delle persone capitate lì per caso; dopodiché,
lentissimo, e con una totale, devastante assenza di qualsiasi pathos, si alza
il velo di polvere che copre il passato di Roberta, una prima giovinezza piena
di traumi. E quel corpo che abbiamo visto ingrassare tra un Supper Club e
l’altro si rivela coperto da un groviglio di cicatrici: un campo di battaglia –
testimone di una guerra persa.
Eppure è qui che
emerge la genialità dell’autrice: mentre la protagonista si distacca dallo
status di donna qualunque, arrotondandosi e definendosi nel continuo passaggio
tra passato e presente, non assurge mai allo status di eroina. Roberta rimane
un’everywoman, una persona qualsiasi, una donna come ne sono piene le
strade, gli uffici, i negozi che frequentiamo ogni giorno. Perché se c’è
qualcosa che è tutto tranne che straordinario, questo è il trauma. L’aver dovuto
sostenere il colpo di qualcosa che all’improvviso si è abbattuto su di noi
lasciando quelle cicatrici a cui siamo così abituate che forse non le notiamo
nemmeno più. Ecco allora che mangiare fino a star male, bere, ballare e
stordirsi è uno dei tanti modi di riappropriarsi di un corpo traumatizzato e
imporci sopra il proprio agire, cercando la gioia e la liberazione in un
contesto esterno che si fa sempre più claustrofobico man mano che ci caliamo
dentro la prospettiva della protagonista. Una claustrofobia tanto più
opprimente perché normalissima, perché ce la siamo sentita attorno anche noi.
"Terminato il caffè, mi chiedeva che cosa avevo voglia di fare, regalandomi l’illusione di avere carta bianca. Manco a dirlo, era tutto fuorché bianca, ma fittamente tappezzata di inchiostro invisibile. Solo che io non ero tenuta a saperlo." (187)
Se il primo libro
di Lara Williams si gioca tutto sulla linea di confine sottilissima tra il
doloroso e il fisiologico, spalancando l’abisso che si cela sotto ogni
esistenza “normale”, il suo secondo libro, uscito a maggio 2023 per Blackie, ci
prende in contropiede sotto tutti i punti di vista. Perché la protagonista di La
crociera, Ingrid, ci sembra tutto tranne che una donna normale.
Mi sedetti. Chissà se stavo davvero facendo qualcosa di insolito. Forse era normale, niente di che, piombare li senza preavviso. Uno dei tanti privilegi del programma. Osservai l'espressione di Keith, quella di un uomo che cerca di far quadrare le cose disparate che sa di una persona. Un'espressione che avevo visto sul volto di mio marito innumerevoli volte. Avrei quasi preferito che Keith mi guardasse con la neutralità annoiata che aveva assunto mio marito quand'era finalmente giunto alla quadratura. L'espressione attuale mi rendeva nervosa. (p. 97)
È una donna che
ha scelto di vivere lavorando in una stranissima nave da crociera; del suo
passato intuiamo solo un matrimonio naufragato. Non sembra avere grandi
emozioni né sentimenti, è completamente parte del formicaio di cui tutti i
lavoratori sulla nave fanno parte. Mansioni che cambiano secondo un algoritmo
inconoscibile, turni che si alternano a caso senza seguire il ritmo circadiano,
l’asfissia degli spazi chiusi e dell’omogeneità dei vestiti bianchi dell’uniforme:
la surrealtà del libro procede implacabile, mentre il suo lento disvelarsi
attanaglia il lettore come faceva l’atroce normalità di Roberta in Le
divoratrici. Tra terra e mare, anche la vita di Ingrid procede in modo
meccanico: un corpo biologico, che procede nelle sue funzioni. Anche qui, però,
arriva implacabile il marchio del trauma. Nelle pagine finali, un romanzo che ci
era sempre sembrato surreale affonda nella ferocia della vita vera, e
recuperiamo il contatto con quella normalità che caratterizzava il primo libro
dell’autrice; ma solo per perderlo poi subito dopo, quando capiamo che, alla
fine, non c’è poi così tanta differenza nella vita di Ingrid prima e dopo
l’essersi imbarcata sulla nave. Anche Ingrid non è un’eroina, che si risolleva
dal suo passato per giungere a una felicità liberatoria. La realtà e la surrealtà si
mescolano grazie all’assenza di senso, che se in Le divoratrici poteva
sembrare la via d’uscita da una vita segnata dal trauma, qua invece si
trasforma in un nichilismo cosmico che lascia ogni volizione fuori dallo spazio
delle pagine.
Insomma, si è
capito: i libri di Lara Williams non sono libri che riempiono il cuore di
positività. Allo stesso tempo, però, sapersi riconoscere in queste protagoniste
martoriate può essere un sollievo. Non c’è nessuna narrativa eroica tesa a una
felicità promessa per chi si comporta bene; le protagoniste dei libri di
Williams sono spesso causa dei loro guai, e le vediamo portarsi dietro il loro
fardello di sofferenze con un’indifferenza quasi spaventosa. Finché non ci
rendiamo conto che la narrativa di Williams, persino quando si spinge nel campo
della surrealtà, riesce a essere incredibilmente assai più realistica di
moltissime altre penne nel rappresentare cosa significa abitare un corpo
vulnerabile e portarselo appresso in un mondo che quasi mai è orientato da un
senso superiore. Un realismo difficilissimo da ottenere.
Marta Olivi
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