Il sussurro del fuoco
di Anya Bergman
Editrice Nord, 2023
Traduzione di Giuseppe Maugeri
pp. 464
€ 19 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Al suo esordio con Il sussurro del fuoco, Anya Bergman vive e insegna scrittura creativa in Irlanda, ma è stato durante gli anni trascorsi in Norvegia che si è imbattuta per la prima volta – come racconta nelle ultime pagine del suo romanzo, indirizzate proprio a noi lettori e lettrici – ai terribili accadimenti avvenuti sull’isola di Vardø a cavallo degli anni 1662 e 1663, legati al clima da caccia alle streghe (tema oggetto di un altro romanzo, Vardø. Dopo la tempesta di Kiran Millwood Hargrave). Appassionata dell’argomento, Bergman inizia a documentarsi sulle donne protagoniste e vere vittime dei processi sull’isola, pietrosa e inospitale sperone di roccia, e degli insensati roghi che nel XVII secolo non erano che una norma. Ne trae così un romanzo i cui nomi sono modificati per agevolare il lettore, ma le cui storie, seppure in forma romanzata, non sono affatto dissimili dalla realtà lugubre e cruenta dell’epoca; una realtà al contempo fascinosa agli occhi di noi contemporanei, perché tutto ciò che è magico e arcano appare incredibilmente attraente.
L’attrazione per l’oscuro e il malvagio è proprio uno dei temi fondanti del romanzo, che si muove tra le dicotomiche lotte interiori dei personaggi: la luce e il buio, Dio e il Diavolo, la peccaminosità e il timore da parte delle donne di diventarne schiave senza saperlo, semplicemente vivendo.
È quello che accade alle donne il Il Sussurro del fuoco, tutte protagoniste, tutte portatrici di una storia personale che elargisce molti insegnamenti su cosa voleva dire (e vuole ancora dire) essere donna: la frustrazione di non essere credute, l’inevitabile rassegnazione di non essere considerate, l’umiliazione di non essere reputate degne di rispetto, di non esistere in quanto persone.
Ingeborg Iversdatter e Anna Rhodius sono gli sguardi attraverso i quali la scrittrice racconta gli eventi, alternando un capitolo per ciascuna. Dai loro occhi si disegnano delle figure femminili bellissime: l’audace e ribelle Maren Olufsdatter, dalla pelle nera e con i ricci color carbone, vitale incarnazione della femminilità spavalda e combattente; la madre di Ingeborg, Zigri, con il suo manto di capelli rosso-dorati che rifulge lungo tutto il libro, e la sorellina di Ingeborg, Kirsten, con gli occhi azzurri profondi come il mare. La descrizione fisionomica delle donne non è infatti secondaria nel testo: le loro caratteristiche vengono amplificate ed esaltate dall’autrice, la loro bellezza, anche nei momenti più macabri della storia, viene fatta prevalere. E i loro colori sembrano essere lo specchio della loro interiorità, delle indoli diversificate di ognuna – gli occhi color nocciola, pacati ma determinati, di Ingeborg –, perché fa tutto parte di ciò a cui si credeva fermamente allora: simboli e leggende che avevano significati precisi e inossidabili, su cui si fondava una cultura e un sapere, nonché una ferma “giustizia” per processare qualsiasi donna accusata di stregoneria: non occorreva che un ballo, una birra di troppo, la gelosia di una moglie, per esercitare giustizia su chiunque, per essere impietriti dal terrore di avere davanti una strega soggiogata dal diavolo.
Tutto nel romanzo di Anya Bergman ha un sapore occulto e magico. Il folclore ben descritto e le pietanze tipiche fanno sognare a occhi aperti. Ci si ritrova in una Norvegia aspra e gelida, ma incantevole, facile da immaginare sotto la guida delle accurate descrizioni dell’autrice, come per l’immagine del falò di San Giovanni, quando le donne iniziano a ballare in una sorta di ritmo estatico che si fonde e confonde con la credenza nei riti satanici.
È tale libertà, la libertà femminile di avere forza, desiderio e passione al pari degli uomini, che conduce le protagoniste a essere tutte additate come streghe e a rischiare il rogo sull’isola di Vardø. Qui vengono tenute prigioniere per diversi mesi, dall’estate del 1662 alla primavera del 1663, abusate e torturate per confessare i loro crimini e per qualcuna di loro la tragedia non sarà evitabile.
La storia di Bergman è la storia di un’epoca cruenta che ci appare tanto lontana quanto fantasiosa. Il tema stregonesco può fuorviare e far credere, a chi oggi legge, che nulla di tutto ciò che l’autrice racconta abbia a che fare con la realtà dei nostri giorni, ma ricordandoci poi che le motivazioni all’origine della caccia alle streghe e l’ossessione accusatoria contro le donne sono le medesime. Per tale ragione trovo che il romanzo di Anya Bergman abbia un sapore attuale, se giustamente contestualizzato, e che sia sempre educativo leggere le storie, pur romanzate, attraverso le quali la donna si è fatta strada di epoca in epoca.
D’altro canto, il ritmo lento della narrazione, specialmente nelle prime due parti del romanzo (cinque in totale), non aiuta la curiosità ad andare avanti e poteva essere sveltito. Ho fatto fatica a immedesimarmi nelle prime pagine del libro e non ho apprezzato certi aspetti dello stile narrativo dell’autrice, come l’infarcire il testo di immagini un po’ scialbe e melense, già abusate. Inoltre, tanti dettagli superflui appesantiscono le azioni e le numerose spiegazioni sul pensato dei personaggi potevano senz’altro essere ridotte, perché a un lettore piace che una storia gli venga mostrata con vividezza e non spiegata passo dopo passo.
Se le quattrocento pagine del libro fossero state sfoltite, la storia ne avrebbe giovato, ma non mi sento di mal giudicare del tutto l’operato di Anya Bergman: il suo intento di riportare all’interesse umano una tematica angosciosa e dai tratti mitologici ci dà modo di riflettere anche sul nostro tempo.
Federica Cracchiolo