Le non-cose, il non essere, la non vita: abbiamo bisogno delle cose reali per aggrapparci alla vita. Un saggio interessante di Byung-chul Han sui pericoli dell’impero digitale




Le non cose. Come abbiamo smesso di vivere il reale
di Byung-Chul Han
Einaudi, StileLibero Extra, febbraio 2022

Traduzione di Simone-Aglan Buttazzi

pp. 136
€ 13,50 (cartaceo)
€ 7,99 (eBook)

Anche oggi le cose scompaiono costantemente senza che noi ce ne accorgiamo. L’inflazione oggettuale ci inganna simulando l’esatto opposto. […]Le informazioni, quindi le non-cose, si piazzano davanti alle cose facendole sbiadire. Noi che non dobbiamo sopportare lo strapotere della violenza assistiamo anzi al dominio dell’informazione che si spaccia per libertà. […] Oggi il mondo si svuota riducendosi a informazioni spettrali quanto quelle voci incorporee. La digitalizzazione derealizza, disincarna il mondo. E bandisce anche i ricordi. Invece di metterci alla loro ricerca, noi salviamo quantità immani di dati. La polizia del ricordo viene cosí sostituita dai media digitali che svolgono il proprio lavoro senza alcun ricorso alla violenza né grande dispendio di forze. (pp. 3-4)

Reale e realtà derivano dal latino res, che significa «cosa»: il mondo reale è fatto di cose, tangibili, misurabili e le cose sono oggetti che si caricano di valori simbolici. Il mondo digitale è fatto di non cose incorporee, effimere, temporanee che, in virtù di questa loro dematerializzazione, sono impermeabili, anzi refrattarie a ogni valore simbolico.

Il filosofo sudcoreano Byung-chul Han anche in questo breve saggio si interessa agli aspetti che l’impatto digitale ha avuto sull’uomo moderno. Con la sua prosa efficace e accessibile, è uno dei filosofi più letti del Vecchio Continente. Le pagine catturano l’attenzione del lettore curioso, che trova nei libri di Han grande soddisfazione, perché lo studioso indaga e interpreta con le parole della filosofia e i suoi strumenti la realtà e il malessere dell’uomo moderno. La digitalizzazione e la conseguente dematerializzazione della società in cui viviamo vedono le nostre vite dominate dai continui flussi di dati e di informazioni che riempiono  i dispositivi di uso quotidiano, i quali, a loro volta, diventano una sorta di surrogato della nostra memoria. Questi strumenti, nati per semplificarci la vita, per la loro natura, non sono in grado di distinguere ciò che davvero ci sta a cuore e ci interessa da ciò che è superfluo. L’utilizzo di pc, tablet e soprattutto smartphone - micro pc tascabili da sfoderare in ogni occasione - innumerevoli volte al giorno, ci conduce sempre più alla pigrizia mentale. Ma non solo. Purtroppo.

Siamo ormai tutti infomani, accumulatori seriali di dati e informazioni, pronti all’uso e fuggevoli, abbiamo abbandonato la cultura del ricordo per farci invadere, a volte passivamente, da una pioggia torrenziale di dati e informazioni, per soddisfare la continua richiesta di nuovi stimoli fugaci che ci impediscono di vivere l’esperire, di partecipare alla scoperta che nella sua essenza ha bisogno delle emozioni. L’uomo moderno, secondo il filosofo, ha continuo bisogno dell’“effetto sorpresa” e di ottenere ciò che necessita senza sforzi: questi bisogni e questi stimoli hanno una durata brevissima e sono sostituiti immediatamente da nuovi stimoli, e guai se questo processo si inceppasse, come lo studioso ha avuto già modo di spiegarci nel saggio La società della stanchezza (edito da Nottetempo e disponibile anche in audiolibro) quando presenta i tanti mali dell’«eccesso di positività» dell’era contemporanea.

Le cose in quanto oggetti agli occhi dell’uomo moderno perdono sempre più valore, il mondo si svuota, secondo Han «riducendosi a informazioni spettrali quanto quelle voci incorporee. La digitalizzazione derealizza, disincarna il mondo» (p. 4) e rischiamo di perdere la memoria non solo delle cose, ma anche delle emozioni e dei valori di cui esse si sono sempre caricate, senza che noi ne avessimo piena consapevolezza. Citando e sostenendo la tesi di Hanna Arendt esposta in Vita activa, fin dai primi capitoli Han insiste sul fatto che gli oggetti con la loro materialità rappresentino dei punti saldi, dei cardini per una vita vissuta in tutta la sua pienezza:

Le cose stabilizzano la vita umana fornendole continuità, affinché «gli uomini, malgrado la loro natura sempre mutevole, possano ritrovare il loro sé, cioè la loro identità, riferendosi alla stessa sedia e allo stesso tavolo». Le cose sono i punti fermi dell’esistenza, ma oggi le informazioni le hanno completamente insabbiate. Le informazioni non sono certo punti fermi dell’esistenza. Non è possibile indugiare presso di esse. Hanno una validità molto limitata. […] Lo tsunami delle informazioni getta nell’inquietudine persino il sistema cognitivo. Le informazioni non sono un costrutto stabile: manca loro la saldezza dell’essere. Niklas Luhmann descrive cosí l’informazione: «La sua cosmologia è una cosmologia non dell’essere, bensí della contingenza». (pp. 5-6)

Nell’era digitale non c’è spazio per pensare al futuro, ma tutto si limita alla contingenza. È un modus vivendi e operandi che accomuna ormai le giovani generazioni. Le non cose è un breve saggio, come ci ha abituati il filosofo, ma incisivo, efficace, che presenta concetti non scontati, ma che stimolano alla riflessione. È strutturato in sette capitoli, più una prefazione, che toccano argomenti come l’intelligenza artificiale, i selfie, lo smartphone, l’esperienza, l’impatto sulla nostra società del passaggio dalla foto analogica a quella digitale, fino a una succosa digressione sui juke-box, in cui l'autore richiama spesso lo scrittore austriaco, Premio Nobel, Peter Handke, che aveva scritto a sua volta proprio un saggio sul juke-box (edito in Italia da Garzanti). Fino a qualche decennio fa il filosofo era stato non poche volte tacciato di catastrofismo digitale, di essere contro il capitalismo e il neoliberismo, di vaticinare un futuro poco desiderabile, ma oggi il suo pensiero si è rivelato non soltanto non compreso appieno, ma in gran parte esatto. Come dicevano gli antichi, e nessuno mai li ha contraddetti, in medio stat virtus.

Marianna Inserra