Il campo di Gosto
di Anna Luisa Pignatelli
Fazi Editore, 2023
pp. 224
€ 17,50 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)
Il campo di Gosto è un romanzo che ha smesso di cercare riparo, e si è lasciato ardere dal sole cocente della Toscana in estate.
Anna Luisa Pignatelli si riconferma scrittrice elegante e compita, oltre che talentuosa evocatrice di immagini ed emozioni primitive che si riversano con forza nella contemporaneità, consolidandosi. Dopo L’ultimo feudo (2002), Buio (2006) e Ruggine (2016), l’autrice, ancora una volta, dà alle stampe una storia indifesa e spietata, fatta di personaggi biechi contro altri vulnerabili, racchiusi in un piccolo borgo toscano dove malvagità e prepotenza si alimentano con la legge del silenzio.
L’inizio è la fine di Agostino Neri, detto Gosto, costretto a vivere il suo primo giorno di pensione, «quell’ultimo tratto dell’esistenza» (p. 7) che trascina con sé una morte già annunciata nell’indifferenza di parenti e conoscenti.
Tutto è già accaduto: prima il matrimonio con Zelia, petulante e ficcanaso delle cose altrui a tal punto da inimicarsi l’intero borgo di Castelnuovo; la nascita di Mirella, quella figlia opportunista e avida, per cui Gosto prova quasi odio; poi l’abbandono della moglie; i tradimenti extraconiugali di lui; “Storto”, quell’appellativo offensivo da parte del padre, ormai defunto, minatore per scelta pur di non combattere coi fascisti, «è come un albero che cresce storto, più che studiare, gli garba andare a zonzo e gobbarsi un sacco di scemenze» (p. 15). Gosto è solo, vecchio e fiacco. A differenza di Zelia, la vita degli altri non gli interessa, «a lui bastava poter credere in alcuni di loro» (p. 35). Eppure, in un piccolo paese è difficile stabilire una forma d’intesa autentica, laddove tutti proteggono l'uomo d’onore del momento per viltà o per calcolo, persino non denunciando l'atteggiamento pedofilo di un padrone d'impresa; laddove le donne sogghignano delle disgrazie altrui, e tessono trame immaginarie pur di macchiare la reputazione del “nemico”. Gente che era vissuta «senza aver mai avuto un gesto generoso né verso la terra su cui erano nati né verso alcuno dei suoi abitanti» (p. 128). Egli non ama stare con gli altri vecchi di Castelnuovo al tavolo del bar e giocare a carte per ammazzare il tempo, con gli stessi che oltre a essere corrotti, non hanno un'ideologia ben chiara: prima fascisti, poi falce e martello e ora ammiccano alla mafia. Gosto preferisce rimanere fuori dal branco, come fosse una bestia selvatica, non per audacia, ma per avvilimento: il male lo rende impotente.
Tuttavia, nonostante il passato prema sul presente, il protagonista riceve in eredità, alla morte del padrino di battesimo, un podere in uno stato di degrado avanzato, e con parte dei suoi risparmi compra un campo, il campo tondo, «quel pezzo di terra [...] che gli dava l'impressione di avere un posto suo nell'universo infinito» (p. 45). La fine sembra avere di nuovo un inizio. Ora Gosto sa cosa fare di se stesso: quell’appezzamento di terreno è una «zattera in mezzo ai flutti» (p. 213).
Anna Luisa Pignatelli racconta una storia antica che non è mai mutata, quella dei cattivi contro i buoni, dove gli ultimi perdono perché si lasciano corrodere dalla malignità serpentina, abile a vestire i panni di misericorde. Non importa quanto riprovevoli possano essere le sue azioni, che si tratti di minacce, di violenza esercitata su animali, o addirittura di stupro ai danni di una giovane, dopotutto: «Il maresciallo è amico mio: sa che io penso in grande, sa che è la mia azienda, insieme alle cave di travertino e al mobilificio, a dare il pane alla gente di qui» (p. 51), dice il Tagliaferri, l’uomo d’onore e dell’indulgenza a nero.
Il campo di Gosto è un romanzo che si lascia spiare da lontano, e che non vuole intromissioni. Ogni cosa e persona occupano il loro posto da troppo tempo, e anche se Gosto prova a mettere a soqquadro le gerarchie, con grande sorpresa del lettore, tutto, con una forza inaudita, ritorna al suo stato ordinario, perché: «Il male resta nel luogo che più gli conviene anche quando non gli appartiene» (p. 82). E allora, non resta che riporre tutte le proprie certezze in una cartellina blu, testamento, soldi, l’onestà di una vita, sperando, invano, che nemmeno l’avidità della propria figlia possa profanare, lui, Gosto, che
«aveva sempre cercato di strappare alla vita un po’ di poesia, un po’ di calore, un po’ di verità, senza chinare la schiena di fronte a nessuno: questo suo modo d’essere aveva sollevato solo diffidenza e invidia, ancor più che il podere e il suo campo. [...] Ma lui non voleva darsi per vinto» (p. 213).
Tuttavia, non ha altra scelta.
Gosto è l’uomo qualunque che potremmo incrociare lungo le strade bianche e polverose della Toscana senza nemmeno accorgerci del suo passaggio; è l’uomo insicuro e diverso, che desidera le cose semplici, come il volersi bene, un sano rapporto umano e ascoltare con attenzione i rigogli della natura. È un uomo autentico alla ricerca dell’autenticità; egli è l’idea da cui partire per provare a cambiare le cose.
Olga Brandonisio
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