I qui presenti
di Fabio Bartolomei
edizioni e/o,
2023
di Fabio Bartolomei
pp. 224
€ 18,00 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)
€ 11,99 (ebook)
T’ho studiato, amico mio, poco ma t’ho studiato, e lo so che sei involontario, che vivi nella tua gabbia e fai quello che fai senza manco sapere il perché. Ma ora l’hai visto: anche nella città più pidocchiosa e morta del mondo ci sta un sacco di vita, troppa vita. Non te lo scordare mai. (p. 112)
Con il suo nuovo romanzo, I qui presenti,
Fabio Bartolomei ci spiazza ancora una volta, introducendo, fin dalle prime
pagine, una cifra di visionarietà
inaspettata. Narratore è Oscar, un ventiduenne spiantato, piccolo
spacciatore che vive all’addiaccio e consuma più pasticche di quante riesca a
venderne. Non potendo pagare l’ultima rata, non è riuscito a prendere alla
scuola serale un diploma che ormai pareva vicino («per quelli come me i sogni sono bestie selvatiche, gira e rigira una
bella sgraffiata la rifilano sempre», p. 10) e anche la fidanzata Lisa, che
appartiene a una buona famiglia, inizia a diventare sfuggente, ad accampare
scuse pur di non vederlo.
Tutti questi elementi lo rendono un personaggio palesemente inaffidabile, anche a se
stesso, tanto che, quando una notte si sveglia nelle tenebre più fitte, e il
mattino successivo scopre che il mondo intorno a lui si è dissolto, inghiottito
da un bianco uniforme, opaco e privo di qualsiasi profondità, il primo pensiero
che gli salta in mente (a lui, così come al lettore) è quello di un’alterazione della percezione legata
alla dipendenza. Questo è, del resto, ciò che pensa anche Lisa, unica a
scampare con lui a questa cancellazione
radicale, almeno fino a quando i due non si rendono conto che proprio
Oscar, con il suo movimento, riesce a dissolvere il bianco facendo ricomparire scampoli di mondo, con tutto ciò che
contengono, persone e animali compresi (e nel novero delle ricomparse, si
potranno contare un gatto, un cavallo, e persino due struzzi).
Dopo molti esperimenti, guidati dalla razionale e
pragmatica Lisa, e dopo il trascorrere di un congruo lasso di tempo, i due
innamorati non possono che giungere a una stessa conclusione:
Se a circa dieci ore di distanza gli unici pezzi di bianco scancellati corrispondono al cammino fatto dal qui presente Oscar Gilera e non a quello fatto da ragazze di buona famiglia né da gatti fetenti, tocca farsi una ragione che forse solo pochissime, molto sottovalutate persone hanno il potere di fare il miracolo, la magia o quel che è. (p. 24)
A questo si aggiunge la progressiva presa di coscienza che, in una sorta di
realtà parallela a quella in cui loro sono immersi, la vita sta proseguendo
regolarmente, e un’altra versione di loro, o loro stessi, continuano ad agire
come sempre, mandando messaggini, sostenendo esami universitari, frequentando
feste (o, nel caso di Oscar, evitando accuratamente tutte queste attività, per
paura di ricadere nelle mani di quel brutto ceffo a cui deve ancora del denaro
che non ha…).
Bartolomei sceglie, per dare voce al suo
personaggio, di far uso di un linguaggio
mimetico, a tratti colloquiale, a tratti invece stranamente arcaico, che
risente di quello della nonna defunta, unico modello positivo per Oscar, per il
resto cresciuto in una famiglia violenta
e incapace d’amore genitoriale. È lui che si pone domande e propone
interpretazioni per fatti che appaiono inspiegabili, generando quei momenti di straniamento da cui scaturisce
la comicità del testo.
Ai segmenti di focalizzazione interna, si alternano dei capitoli di cui
inizialmente si fatica a comprendere la natura. L’incipit fa sempre riferimento
alla creazione del mondo o alla natura dell’uomo, protagonisti sono sempre due
personaggi, per lo più abietti, descritti in base alle loro caratteristiche
preminenti. E se il loro legame con i personaggi principali si disvela poco
alla volta, ci si mette ancor di più a capire quale sia lo scopo di tale
intermezzi nella narrazione. Certo è, e questo si può anticipare, che il quadro
dell’umano che ne è emerge non è lusinghiero, e non rende molto onore agli
sforzi del suo lunghissimo processo evolutivo. I soggetti rappresentati
naufragano infatti nella banalità o nell’ipocrisia, nella corruzione o nel
vuoto di senso. Vivono indossando maschere imposte dall’esterno, inseguendo
soltanto interessi materiali, incapaci di comprendere chi li circonda o
disinteressati a farlo. È proprio guardando a personaggi come questi che lo
sprofondare del mondo nel bianco pare quasi una buona cosa, un esito
auspicabile.
Nel contrapporre i due piani della narrazione, il
lettore, insieme ai protagonisti, inizia a porsi
domande. Per quale motivo tutto ciò sta succedendo? È una punizione o una seconda occasione? Mentre per Lisa il bianco è
una prigione angosciante e per l’amica Matilde, da loro “liberata”, è
l’occasione per vivere finalmente libera dalle preoccupazioni eccessive della
madre, Oscar è il fanciullino pascoliano,
il nuovo Adamo che vede il reale dispiegarsi davanti ai suoi occhi e
improvvisamente si trova a riscoprire e ad apprezzarne ogni singolo elemento.
Riportare alla luce la città diventa una
missione, qualcosa che lo obbliga per la prima volta a riflettere su ciò
che merita di essere recuperato e gli fa scoprire una nuova cura per le cose,
una volontà creatrice positiva che prima ignorava.
La città sta venendo su proprio bene, da guardarsela e riguardarsela: ci stanno molti spazi verdi e piccoli edifici disabitati, geometrici, quadratini colorati sul bianco, collegati tra loro da stradine belle dritte. In fondo al molo bianco ci stanno gli struzzi. […] È una sciccheria. No, sciccheria non è la parola giusta, non è la parola più lontana dall’ombra dei vicoli dove ho brigato e rimestato. È mia. Io, Oscar, sorcio di fogna, sorcio gratta e rosicchia, sto facendo una cosa mia, che brilla di mio. (p. 82-83)
Per chi è cresciuto nel disordine,
circondato da una bruttura che si fa metafora, il nuovo ordine è culla, dimora.
Il bianco diventa una tela su cui disegnare un mondo nuovo, e proprio l’assenza
di un orizzonte geografico, visivo, rende possibile, per Oscar come per i suoi
compagni di avventura, immaginarne uno per sé, per la propria vita futura. Nel
bianco, senza le distrazioni del quotidiano, dandosi ogni giorno degli
obiettivi e attivandosi per raggiungerli, i sogni trovano nuova concretezza e
paiono realizzabili. Solo che anche nell’Eden, nel Paradiso ritrovato, le
notizie dal mondo di fuori possono fare irruzione e seminare un germe di
dubbio. Cosa sta succedendo di là, fuori dal bianco? Come ha fatto il coltello
di Oscar a essere implicato in un brutto caso di cronaca? Perché il suo alter
ego non accende mai il cellulare, non scrive più all’altra Lisa?
Non si può andare oltre nell’esplorare la trama
de I qui presenti per non rovinare il
gusto della lettura. Si può dare, al massimo, qualche ulteriore informazione
collaterale. Per esempio, che quella narrata da Bartolomei è anche, inaspettatamente,
una storia d’amore, una storia di scelte, di legami costruiti e ricostruiti. È
forse, soprattutto, una storia che
continuamente ci interpella: cosa salveremmo noi dal bianco?, ci porta a
chiederci. Che mondo potremmo e vorremmo ricostruire? E cosa faremmo di noi
stessi se sapessimo che ogni nostra azione può avere delle conseguenze
materiali, immediate, sulla vita degli altri oltre che sulla nostra? Che tipo
di persone vorremmo essere?
Rispetto ai romanzi precedenti dell’autore (si
pensi alla quadrilogia della famiglia), non è più l’elemento surreale a
penetrare nella quotidianità, ma si attiva piuttosto un meccanismo di senso
inverso: è l’onirico, il fantastico a
doversi far concreto, per andare incontro al lettore, per non approfittare eccessivamente
della sospensione dell’incredulità
che già ha richiesto e che è imprescindibile perché si possa godere della
narrazione. I qui presenti è infatti un libro che richiede una scommessa,
l’accettazione di un patto di fiducia che l’autore propone fin dalle prime
pagine. Chi sceglie di entrare nel gioco, però, troverà che questa sia un’opera
che fa bene allo spirito e che conferma il talento narrativo di Fabio
Bartolomei, il quale riesce a essere sempre nuovo rispetto a se stesso, senza
perdere in incisività.
Carolina Pernigo