Guerra
di Louis-Ferdinand Céline
Adelphi, 2023
Traduzione di Ottavio Fatica
pp. 160
€ 18,00 (cartaceo)
€ 12,99 (ebook)
Mi sono beccato la guerra nella testa. Ce l'ho chiusa nella testa. Vabbè. Dicevo dunque che nel bel mezzo della notte mi sono rigirato a pancia sotto. Così andava meglio. Ho imparato a distinguere i rumori esterni dai rumori che non mi avrebbero lasciato mai più. (p. 26)
Céline ci restituisce l'esperienza della Grande Guerra, un'esperienza assolutamente autobiografica, attraverso il canale uditivo. Le pagine risuonano di fischi, esplosioni, ronzii, lamenti, tutto «il rumore di tempesta che mi portavo appresso». È un libro di guerra, che non mostra combattimenti, ma che inizia quando Louis Ferdinand, moribondo nel campo di battaglia, nei dintorni di Ypres sul finire del 1914, capisce di essere l’unico sopravvissuto al bombardamento del suo convoglio da parte delle truppe tedesche.
Sarò rimasto lì ancora una parte della notte dopo. A sinistra tutto l'orecchio era appiccicato a terra con il sangue, la bocca pure. Fra l'uno e l'altra un rumore immenso. In quel rumore ho dormito e poi è piovuto, pioggia di quella fitta fitta. Ho allungato un braccio verso il corpo. Ho palpato. L'altro non ce la facevo più. Non lo sapevo dov'era l'altro braccio. Era schizzato in aria altissimo, vorticava nello spazio e poi ridiscendeva a trafiggermi la spalla, nella carne viva. (p. 25)
Céline racconta la sua guerra: egli fu ferito gravemente e le conseguenze di quella ferita gli portarono emicranie per tutta la vita, fu insignito di una medaglia, fu trasferito in vari ospedali, fino poi a riparare a Londra. Ma ciò non fa di Guerra un'autobiografia, perché Céline è Céline, e la narrazione a un certo punto imbocca la via dell'iperbole, del grottesco; lui forza a tal punto la capacità espressiva del linguaggio da creare una descrizione visionaria, cruda, scabrosa, anche oscena nelle parti relative alle scene di sesso, eppure intrise di quella pietà che sempre si riscontra nelle pagine di un autore così "cattivo". Non salva il mondo, ma non salva neppure se stesso. Anzi, parte proprio dallo sfacelo fisico e morale di se stesso per fare letteratura:
Ho l'anima più dura, come un bicipite. Non ci credo più alle scorciatoie. Ho imparato a fare musica, sonno, perdono e, come vedete, anche bella letteratura, con piccoli tocchi di orrore strappati al rumore che non finirà mai più. Lasciamo perdere. (p. 27)
I piccoli tocchi di orrore sono le 134 pagine in cui ci racconta un primo ricovero, poi lo spostamento in un altro ospedale, in mezzo a malati maleodoranti e delinquenti, morituri, dove viene affidato alle cure di un’infermiera sadica. Chi ama Céline sa che nelle sue disavventure esilaranti e allucinate ha sempre bisogno di un alter ego (Bardamu e Robinson, nel Voyage) e qui lo trova in Bébert, un delinquente parigino che sfrutta la moglie Angèle, che si prostituisce al fronte. Céline ha allestito il suo teatro dell'assurdo, del raccapricciante, ma riesce come sempre a essere sfrenatamente comico oltre che misteriosamente umano. La prospettiva del suo anti-eroe è quella di chi ha visto a lungo la morte in faccia, ha dormito accanto all'agonia e
quando sarà la volta buona che mi rifilerà l'agonia, gli sputerò in faccia. A partire da un certo momento è tutta una stronzata, ma a me non mi frega, la conosco bene. L'ho vista Ci rincontreremo. Abbiamo un conto in sospeso. Che vada a farsi fottere. (p. 33)
Céline riesce a essere disturbante anche nel 2023, il tempo trascorso dalla sua morte al ritrovamento di questi inediti non ha addomesticato la sua prosa alle nostre orecchie. Riesce a deridere anche la pietà dei genitori al suo capezzale, in pagine che in quanto a verve comica hanno poco da invidiare a Morte a credito. Capivo bene il delirio delle cose, scrive a un certo punto e questo è a mio avviso il senso della sua arte. Se la prosa di Céline è delirio, lo è per un'adaequatio alla realtà: tutto è delirio: i sogni degli uomini, le loro promesse e le loro ambizioni, la volontà di cambiare il mondo e, più di ogni altra cosa: la guerra. La scrittura di Céline è una lente deformante o forse è la lente che fa comprendere con nitidezza quanto siano deformati gli uomini.
Ci sono esseri così, è strano, sono carichi, arrivano dall'infinito, ti vengono a esporre sotto gli occhi il loro gran fagotto di sentimenti come al mercato. Non stanno attenti, spacchettano la loro mercanzia come viene viene. Non sanno presentare bene le cose. E tu non hai comunque il tempo di rovistare fra le loro scarabattole, passi, non ti giri, tu pure hai fretta. A quelli di sicuro gli dispiace. Che fanno allora, rimpacchettano tutto? Buttano via tutto? Non lo so. Che ne è di loro? Non se ne sa niente. Ricominciano daccapo finché gli resta ancora qualche cosa? E dov'è che vanno allora? Certo che è enorme la vita. Ti ci perdi dappertutto. (p. 134)
Una prosa incandescente, che inchioda le percezioni alle pagine, che rende la lingua musica. Il lavoro del traduttore, Ottavio Fatica, è stato superbo proprio perché Céline è, come scrive Fatica, «esuberanza lessicale, sconquasso di sintassi, lingua parlata, sporca, neologismi, ricerca di una musica interiore, e molto altro» (p. 155). In questa visionarietà allucinata (sono sempre parole di Ottavio Fatica) Guerra mostra che la letteratura ha ancora bisogno di Louis Ferdinand Céline.
Deborah Donato