«Una vita fatta di precarietà e bellezza». Intervista a Mauro Covacich su "L'avventura terrestre"

Sono ormai molti anni che seguo la produzione letteraria di Mauro Covacich, sempre colpita dalla puntualità della sua scrittura nel delineare i tratti spesso caotici, confondenti, del reale, nel giocare con i suoi piani scombinandoli e ricomponendoli come fossero carte da gioco, ma soprattutto dalla sua capacità di affondare la penna bene a fondo nel concetto di identità, in senso lato e sotto una prospettiva autoriale. Il complesso sistema delle rifrazioni, dei riflessi, non si è affatto esaurito dopo il ciclo dell’Umiliazione delle stelle, ma si è anzi allargato a coinvolgere sempre di più la figura dello scrittore.
Nel quadro poliforme che si va componendo di volume in volume, L’avventura terrestre (di cui abbiamo parlato qui) riprende e sviluppa molti temi cari all’immaginario di Covacich, offrendosi al lettore ad un tempo come un’opera di sintesi e come uno spiraglio sulle nuove vie che la sua prosa potrebbe esplorare in futuro. Il corpo, la malattia, la famiglia, il tradimento, la relazione, il continuo rispecchiamento tra interno ed esterno, il tema del doppio e lo scambio continuo e imprevisto dei punti di vista, tutto trova qui un nuovo equilibrio, in cui la complessità non è mai inaccessibilità, piuttosto stimolo all’indagine (da qui la difficoltà a formulare domande semplici, che non affondino inevitabilmente nel concettuale o nel filosofico). 
 
L'avventura terrestre
di Mauro Covacich
La Nave di Teseo, 2023

pp. 336
€ 11,99 (ebook)
€ 20 (cartaceo)

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A livello strutturale, l’opera gioca su due piani temporali – un passato che si fa sempre più prossimo e il presente – e su due narratori – uno interno e uno esterno, che guardano sempre a uno stesso personaggio, colto in diversi momenti della sua esistenza. Qual è, a livello narrativo, la relazione tra l’io giovane e l’io adulto? In certi momenti prevale infatti la conflittualità, in altri una ricerca di collaborazione. Quelle che all’inizio paiono minacce, che arrivano al giovane da una sua inquietante proiezione futura, poco alla volta si configurano invece come tentativi dell’io adulto di mettere in guardia l’io giovane rispetto a ciò che gli riserva la vita…
Nel libro in effetti c’è un doppio movimento che si traduce in una dimensione temporale anomala, fatta di tunnel e oscillazioni. Il primo movimento è banale, tornare a quando avevo vent’anni, è un semplice lavoro di scavo. Il secondo movimento è meno scontato ed è l’innesco vero del libro, guardare da laggiù, dai vent’anni, verso la luce del presente e osservare quello che sono diventato, il tizio che si aggira per le vie del Villaggio Olimpico, qui a Roma. Se guardo quassù con gli occhi di quel ragazzo, riconosco questo tizio? Cosa provo per lui? Allo stesso modo, questo tizio, forte delle esperienze acquisite in trent’anni di vita, quando scende in fondo allo scavo e ritrova quel ventenne, forse può metterlo in guardia, magari fargli cambiare idea sulla direzione su cui mettere il proprio futuro, magari, se il ragazzo lo ascolta, anche il futuro dell’uomo potrebbe risultarne modificato.
 
A livello narrativo, un ruolo fondamentale è giocato dalla donna che affianca il protagonista, chiamata sempre e solo “lei”. Nelle tue opere le figure femminili sono quasi sempre positive, contraltari luminosi alle fragilità dei protagonisti maschili, in alcuni casi un po’ vittime delle loro ossessioni. In questo caso, lei rappresenta stabilità e forza, mentre lui vacilla. Come si definisce ed evolve il loro rapporto all’interno della storia? 
Curioso, a me non sembra di aver ritratto solo donne positive nei miei libri, comunque ne ho conosciute diverse nella vita che non lo erano… Lei è a tutti gli effetti la coprotagonista. Più vitale, più brillante e più contraddittoria di lui. Banalmente il loro rapporto si è mantenuto vivo negli anni grazie alla loro diversità, a quello che lei ha definito “scontro etnico”, la distanza tra una romana e un triestino, che ha anche il suo lato diciamo esotico.
 
Al centro delle tue opere è sempre stato il corpo: quello consumato del maratoneta, quello esibito del performer, quello mediato dagli schermi, anche – penso a La città interiore, dove il corpo è diventato in qualche modo anche metafora di una terra – quello lacerato dalla guerra. Nei tuoi ultimi due volumi, il corpo da integrale si è in qualche modo segmentato: il focus inizialmente non è più sul corpo intero, ma su singole parti, tutte a loro modo vitali. Da un lato il cuore, dall’altra il cervello, entrambi minacciati, a destabilizzare profondamente l’esistenza del protagonista che ti assomiglia. Di che valori esistenziali si fanno espressione? In che modo entrano in relazione, cosa ci dicono sulla parabola della tua scrittura?
Il corpo è sempre stata la mia fissa. Se c’è una dimensione performativa nella mia scrittura, questa si deve alla mia fede nel corpo, al fatto che il corpo non menta. Il fatto è che il corpo, la cosa che sentiamo più nostra, non ci appartiene. Possiamo passare le giornate a lustrarlo, con le diete, lo sport, la chirurgia estetica, ma il corpo a un certo punto si guasta. Più che uno strumento a nostra disposizione, il corpo è una casa, una casa di cui non possediamo le chiavi (un po’ come il Castello di Kafka), abbiamo tutte le carte per dimostrare il nostro diritto di abitarlo, ma lui a un certo punto ci espellerà. Il corpo è anche, visto da un altro punto di vista, più interiore, la Tana di Kafka, passiamo le giornate ad allestire nuove forme di difesa, ma il nemico è già dentro insieme a noi, abita nei nostri stessi cunicoli, dal primo minuto in cui abbiamo preso possesso della tana. Il corpo è un passaggio obbligato per chiunque sia ossessionato dalla questione della verità.
 
Foto di © Simone Di Luca
Al tempo stesso, però, ne L’avventura terrestre il tema dell’integrità del corpo da preservare o ricostituire diventa centrale, pensiero quasi ossessivo del protagonista a partire dal momento in cui assiste alla riesumazione del corpo del padre. Questo perché il corpo, da sempre, è tempio, unico luogo in cui può abitare il sacro. Come si concilia questa visione con la sua compromissione? Quali vie di reazione si prospettano al soggetto?
La questione del dopo non ci esime dal pensare il corpo. Il corpo è molto più presente di quanto si creda, anche nelle religioni della trascendenza, su tutte il Cristianesimo. Dio che si fa corpo, il Verbo che si fa carne. La possibilità di riappropriarsi delle proprie spoglie dopo il giorno del Giudizio. Ma la questione non diventa meno cruciale in una concezione antimetafisica, come la mia. Scoprire che qualcosa di mio padre resiste nel punto in cui è stato seppellito, fa quasi del cimitero un ospedale dei morti. Senza la consolazione dell’immortalità dell’anima, ciò che resta del corpo vivo non è facile liquidarlo come scoria.
 
Quali verità ci rivela il nostro corpo su di noi?
Uno che non crede nell’immortalità dell’anima, mettiamo un genio come Lucrezio, è costretto ad affidarsi totalmente al corpo, solo che anche l’appiglio più solido di fatto vacilla. Questo certo lo indebolisce, ma è una debolezza fervida di arricchimenti. Ne esce un uomo (o una donna) più coraggioso, attore di una vita priva di risarcimenti annunciati per l'aldilà, quindi una vita più intensa, fatta di precarietà e bellezza.
 
In quest’opera, più che in tutte le precedenti, emerge e viene indagato il tema della trascendenza. Ho trovato molto centrata la scelta del Cristo Morto di Holbein, che ho visto a Basilea e mi ha tolto il fiato: è difficile, guardandolo, intravedere il divino, la possibilità di una resurrezione, eppure forse non c’è un’immagine più adatta per celebrare il Cristo uomo. Mi pare sia questa l’immagine che trasmette anche il testo, ad esempio quando scrivi: «Dio non poteva far altro che allargare le braccia, Dio era un ragazzo buono e del tutto impotente, un giovane uomo scarnificato, schiantato dal dolore, forse era proprio il suo papà che moriva sulla croce domestica» (p. 19). In che modo questa visione del divino, questo «Dio fatto di parola e carne», può incidere sulla vita dell’individuo?
Se uno crede nel Figlio e non nel Padre, difficilmente può essere considerato cattolico – Gianni Vattimo sta attraversando non pochi problemi, al riguardo –, eppure un Dio infinitamente buono ma debole, un Dio che di fronte alla sciagura del male non può che allargare le braccia, assumendola insieme a noi, questo Dio assomiglia molto alla figura del Cristo, introduce una dimensione solidaristica il cui amore ci porta dritti verso la Ginestra di Leopardi.
 
Uno dei campi semantici spesso utilizzati all’interno dell’opera è quello dell’inabissamento, dello sprofondare (nelle viscere di Roma, ma anche di se stessi), che inizialmente pare in contrapposizione con quello, altrettanto presente dell’abitare, esplorato attraverso i continui riferimenti al Castello di Kafka, ma risemantizzato anche, e ancora una volta, in relazione al corpo. Col procedere delle pagine, i due temi però finiscono per sovrapporsi, quasi completarsi, in riferimento allo spaesamento del soggetto, al suo perdere di vista qualsiasi punto di riferimento, reale e metaforico. Come si declina questo confronto/sovrapposizione in relazione al tema centrale della presunta malattia del protagonista?
Credo che si torni un po’ al doppio movimento a cui accennavo all’inizio. Quando il protagonista scopre la possibilità concreta di essere gravemente malato, vive quella possibilità come una certezza. Nei quattro giorni in cui si svolge l’azione del romanzo, che sono i quattro giorni di attesa della risonanza magnetica, nella sua mente si schiude una nuova dimensione, diciamo limbica; l’unico modo per abitarla è quello di inabissarsi, osservare gli abitanti di questi Campi Elisi, una strana banda di cari estinti con cui prendere le misure in vista di un’eventuale convivenza. Ma in fondo a questo inabissamento, non stanno forse, lui e loro, già abitando insieme nella sua mente?

Mi piacerebbe approfondire la riflessione sui luoghi: ne L’avventura terrestre il protagonista del presente è radicato a Roma, dove ormai vive e che considera casa, anche se in alcuni momenti si avverte ancora un certo senso di straniamento. Gli altri luoghi della sua vita sono rievocati attraverso i salti temporali e i cambi di focalizzazione, e attraverso alcune figure amicali e famigliari che ancora vi risiedono. Come incide sul protagonista il suo nuovo radicamento? La Roma spesso caotica, o notturna, ma anche luogo di nuove consuetudini, è un comprimario positivo o negativo per il protagonista?
Chi arriva a Roma sa che vivrà sempre da forestiero in questa città. Ma Roma è così grande e incasinata che nessuno farà caso alla tua estraneità, e quindi alla fine, senza il merito di nessuno, la città troverà il modo di farti stare a tuo agio. Per il resto, non c’è una particolare intenzione nel mostrare una Roma notturna, questo risponde solo allo sviluppo del racconto. Diciamo che come a Encolpio nel Satyricon, anche al mio protagonista succedono più cose di notte.


a cura di Carolina Pernigo


Immagine riprodotta per gentile concessione dell'autore