Dare un significato alla parola "gay" e ai luoghi che li hanno visti protagonisti: "Gay Bar" di Atherton Lin per minimum fax


 

Gay Bar - Perché uscivamo la notte
di Jeremy Atherton Lin
minimum fax, aprile 2023

Traduzione di Sara Reggiani

pp. 330
€ 19,00 (cartaceo)
€11,99 (ebook)


Gay Bar - Perché uscivamo la notte è un libro peculiare, un mix tra diario intimo, saggio antropologico e ricostruzione storica votati all'analisi di come alcuni dei gay bar più famosi al mondo abbiano plasmato la personalità dell'autore.
La storia prende vita in forma di viaggio: da Londra a Los Angeles a San Francisco, Atherton Lin ci porta a scoprire la natura mutevole, spesso contraddittoria anche per la stessa comunità gay e lgtbq, di locali in cui omosessuali, lesbiche, donne trans, persone queer in senso ampio, si sono sentite a casa e in prigione, rappresentando sia punto di riferimento in cui sentirsi sicuri che trappole in cui si veniva perseguitati, picchiati e arrestati.

La narrazione procede in prima persona, Lin ci parla di se stesso, della ricerca spasmodica e promiscua di una sua dimensione, delle persone che ha amato e dei suoi bar preferiti, allo scopo di lasciare indietro la mera ricerca "scientifica" di ciò che significhi essere gay, preferendo concentrarsi su quali siano gli spazi queer, sul significato stesso di "spazio queer" e su come la percezione di avere un luogo in cui essere semplicemente liberi abbia influenzato tutta la comunità.
Ogni volta lasciavo la città non solo con un bagaglio di mie esperienze, ma con l'impressione di aver visto l'esperienza dipanarsi intorno a me. Le strade erano come calendari dell'avvento: aprivo una casella e ci trovavo un hippie bisessuale, un leather daddy, un travestito elegante, una simpatica lesbica con una pistola tatuata, un viscido yogi, un poeta fumato, uno skater troppo svogliato per resistere alle mie avances. Volevo divorarli tutti. (p. 137-8)
Si parte allora da Londra, in un luogo chiamato semplicemente il Bar, analizzando non solo i suoi spazi interni, ma anche gli orinatoi pubblici che parevano essere suoi corollari. Qui la comunità omosessuale trovava terreno fertile per i suoi incontri, spesso interrotti dall'arrivo della polizia, con tutte le conseguenze violente del caso. Si nomina Gertrude Stein, «forse la prima a utilizzare il termine gay con il significato di omosessuale» (p. 48) e anche la prima volta che l'espressione coming out venne usata (1971). 

Dopo Londra (che torna altre due volte in forma di luoghi come l'Adelphi e L'Apprendista), Lin ci porta a Los Angeles: dai cinema solo per uomini ai moti di Stonewall (violenti scontri tra gruppi gay e la polizia di New York nel 1969) dal famoso "Probe", gay bar per leathermen e machomen ai primi locali in cui si cominciò a fare posing e voguing (consiglio la visione della serie "Pose" su Netflix), l'autore esplora la sua omosessualità correlandola ai luoghi in cui gli era permesso di esprimerla.
Tutto ciò che riguardava l'essere gay mi sembrava affollato: pubblicità di bar, di accompagnatori, di servizi di ceretta, tutto mescolato insieme, tutto così superficiale, teatrale, arrogante. Mi ero lasciato indottrinare da quei gay che infangavano la categoria e, siccome ero stato io a volerlo, ne dedussi di non essere migliore. Mi trovavo a fare i conti con la possibilità di incarnare un riprovevole cliché. (p. 86)
E poi l'Adelphi che, in questo caso, non è una casa editrice, ma una zona di Londra santuario del sesso gay: la ricostruzione storica e urbanistica di un luogo ideale per conformazione e struttura per "nascondersi" da occhi indiscreti. 
A San Francisco invece Lin ripercorre la storia del quartiere Castro, grande polo magnetico per la comunità gay e lgbtq in quegli anni, adottando uno stile narrativo che mi ha molto ricordato un film visto di recente su Mubi di nome "Great Freedom" (la storia di due omosessuali in galera, colpevoli solamente di essere omosessuali, arrestati perché colti in flagrante in alcuni bagni pubblici). Ad accompagnare la scoperta di questi quartieri e dei propri gay bar vi è tanta musica e terminologie che, personalmente, non conoscevo.
Così scopriamo il significato di womxn (termine ombrello per indicare tutte le donne, etero, lesbiche e trans), di woke (ragazzi omosessuali attivisti), di bugchasing (fare sesso con qualcuno infetto per contagiarsi di proposito), di twink (giovane attraente magro e longilineo), e così via. Si scopre dunque un vocabolario che incasella ogni persona in una categoria.
Lin si chiede se questo sia giusto:
Conversando non usavo la parola queer: era un termine dal sapore accademico. Era impersonale, asessuato. Preferivo parole che esprimessero libidine, che colassero precum, parole sporche. Queer era per infilarsi fra categorie, mentre a me piacevano le parole che le categorie le confermavano - maiale, orso, capretto, felino, troia - parole che denotavano tipi che avrei voluto farmi per poi scriverne usandole. (p. 183)
Ovviamente le pagine sono intrise di sesso, di descrizioni di rapporti omosessuali, di abbordaggi promiscui. Lin non si scandalizza e non ha paura di scandalizzare (non ne vedo la ragione, in qualsiasi caso). Nonostante questo, abbina anche citazioni di Foucault, di poeti come Shurin, stralci di canzoni di Elton John e George Michael e Grace Jones, un mix affascinante di "sporco" e altamente letterario.
Il sottotitolo è "perché uscivamo la notte". Si usciva per ballare, per drogarsi, per rimorchiare. Ma soprattutto si usciva per dare un significato alla parola "gay". Cos'era un gay? Come si comportava un gay tipo? Come doveva un gay gestire gli arresti, le offese, le parate, i momenti di sconforto? Era giusto persino utilizzare il termine gay?

Lin si fa molte domande. Probabilmente lui ha trovato le risposte in locali fumosi, puzzolenti, umidicci, tra abbracci di sconosciuti, ma anche di persone che ha molto amato, come Famous, suo compagno per anni, personaggio carismatico e super affascinante.

Tutti noi abbiamo un qualche ricordo di bar squallidi pieni di gente ancora più squallida in cui, nonostante la carta stagnola che fungeva da decorazione sugli scaffali del bar e l'onnipresente odore di disinfettante proveniente dai bagni, ci si riuniva come una specie di comunità (e questo forse è ancor più vero per le sottoculture). Ma è mai stato davvero così, si chiede Lin? «Finché gli esseri umani sopravviveranno, ci saranno spazi sociali, e questi conterranno gerarchie negoziate in termini di potere ed esclusione» replica.
La domanda però che probabilmente non trova risposta o la cui risoluzione Lin lascia a noi è: il gay bar è un simbolo dell'amorfa comunità gay a cui apparteniamo di default a causa del nostro orientamento sessuale, oppure è un comodo recinto o ghetto che tiene i devianti e gli strambi al sicuro dalla società "normale"?
Una nemmeno troppo velata accusa spinge Lin verso quest'ultima possibilità. 
Consiglio la lettura di Gay Bar a chiunque sia interessato all'argomento. Un testo ricco, pienissimo di notizie, da leggere con calma e profonda riflessione.

Deborah D'Addetta