Quando l’essere millennial diventa una condizione esistenziale: “La nuova me” di Halle Butler



La nuova me 
di Halle Butler
Neri Pozza, giugno 2023

Traduzione di Annalisa di Liddo

pp. 180 

€ 17 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

Vedi il libro su Amazon

Si fa un gran parlare del “romanzo millennial”, ma con cosa abbiamo veramente a che fare? Beh, tanto per iniziare, la pagina Wikipedia di “Millennial” ci fornisce indicazioni anagrafiche assai precise. Si definisce “millennial” chi è nato tra gli anni Ottanta e Novanta, e che quindi oggi ha tra i venticinque e i trentacinque anni. Una fascia d’età ben precisa, e non solo per quanto riguarda i sondaggi online sulle abitudini di consumo: si tratta di tutte e tutti coloro che si sono affacciati nel mondo del lavoro dopo la crisi economica del 2008. Una generazione profondamente disillusa dal punto di vista lavorativo, abituata a paghe basse e a lavori d’ufficio depersonalizzanti, ma senza la capacità di ribellarsi che caratterizza la generazione successiva, la cosiddetta Gen Z. I millennial sono invece abituati a credere che lavorare duro e soffrire porterà a un miglioramento. Un pensiero quasi religioso, quasi cristiano, nel promettere felicità domani a chi soffre oggi.

Ed è questa promessa che muove la protagonista del secondo romanzo di Halle Butler, La nuova me, edito in Italia da Neri Pozza. Millie è la millennial per eccellenza (e perdonatemi il gioco di parole): trentenne, impiegata a tempo determinato in un orrendo lavoro da receptionist, vive in un mini appartamento di Chicago il cui affitto viene pagato dai suoi genitori. Si trascina ogni giorno nel mondo portandosi in testa un’incredibile quantità di pensieri negativi, che non osa pronunciare ma che così facendo macerano dentro di lei: la negatività – verso il suo lavoro, verso il suo ex fidanzato, verso la sua unica amica, verso la sua vita in generale – fa da sfondo a una vita grigissima e monotona, quasi abbrutente, soprattutto perché la vediamo attraverso gli occhi di Millie. Una prospettiva in prima persona completamente inaffidabile: Millie non è onesta nemmeno con se stessa, e nell’altalenare tra la rabbia e il vittimismo, tra il disgusto e l’autocompiacimento, capiamo subito che si tratta di una protagonista troppo vera, troppo poco letteraria, per poterci identificare in lei. A maggior ragione dal momento che l’autrice inserisce nella narrazione di Millie capitoli focalizzati su altri personaggi, narrati in terza persona, che suggeriscono quanto Millie sia una donna qualunque, tutt’altro che eroica, una qualsiasi vita insensata in mezzo a un mare di vite insensate.

“C'è la familiarità degli incubi nei miei risvegli di ogni mattina. La qualità della luce, che è di una specie di grigiastro cupo, il corpo irrigidito, l'odore un po' di vestiti sporchi, un po' di olio per friggere, un po' di pattumiera, un po' di incenso. Tutto ciò mi ricorda la mia grande paura di morire e il fatto che ogni mattino è solo un altro giorno che se ne va.
Resto distesa a letto per venti minuti, immersa in questa sensazione, poi faccio il caffè e mi vesto, niente doccia. Poco dopo sono di nuovo in metropolitana e la sensazione si è relativamente attenuata, rimpiazzata dall'ostilità.” (p. 27)

Eppure a Millie manca qualcosa rispetto a tutti gli altri. La sua narrazione in prima persona, la sua incapacità di ancorarsi a un qualsiasi pensiero, è la sua dannazione: Millie la millennial è una soggettività troppo mobile per fermarsi su una persona, su un lavoro, su un’idea. Incapace di guardare al di fuori di sé, ma anche incapace di guardarsi dentro. Un’anima bloccata in un Antinferno eterno, senza speranza di qualsivoglia esito, che sia positivo o negativo.

E ci sarà uno scioglimento finale, sì – ma in che direzione, non ci è dato sapere. Se non corressi il rischio di perpetuare la solita logica che caratterizza la cultura americana neoliberale, oserei quasi dire che sta a Millie decidere di troncare di netto il filo che la collega alla sua “vecchia me” e diventare una Millie migliore, la Millie che desidera tra un pensiero sconnesso e l’altro: ma alla fine la storia di Millie ci insegna che non siamo noi a decidere di diventare nuove, e che molto spesso è la vita ad accaderci intorno e a portarci a essere versione varie di noi stesse. Ecco dunque l’unico comandamento dell’etica millennial: fatti trasportare e cerca di essere contenta di quel che ti capita. Un comandamento che sarebbe veramente deprimente… se non avesse un fondo di verità.

Marta Olivi