La nuova me
di Halle Butler
Neri Pozza, giugno 2023
Traduzione di Annalisa di Liddo
pp. 180
Si fa un gran
parlare del “romanzo millennial”, ma con cosa abbiamo veramente a che fare? Beh,
tanto per iniziare, la pagina Wikipedia di “Millennial” ci fornisce indicazioni
anagrafiche assai precise. Si definisce “millennial” chi è nato tra gli anni Ottanta
e Novanta, e che quindi oggi ha tra i venticinque e i trentacinque anni. Una
fascia d’età ben precisa, e non solo per quanto riguarda i sondaggi online
sulle abitudini di consumo: si tratta di tutte e tutti coloro che si sono
affacciati nel mondo del lavoro dopo la crisi economica del 2008. Una
generazione profondamente disillusa dal punto di vista lavorativo, abituata a
paghe basse e a lavori d’ufficio depersonalizzanti, ma senza la capacità di
ribellarsi che caratterizza la generazione successiva, la cosiddetta Gen Z. I
millennial sono invece abituati a credere che lavorare duro e soffrire porterà a un
miglioramento. Un pensiero quasi religioso, quasi cristiano, nel promettere
felicità domani a chi soffre oggi.
Ed è questa
promessa che muove la protagonista del secondo romanzo di Halle Butler, La
nuova me, edito in Italia da Neri Pozza. Millie è la millennial per eccellenza
(e perdonatemi il gioco di parole): trentenne, impiegata a tempo determinato in
un orrendo lavoro da receptionist, vive in un mini appartamento di Chicago il
cui affitto viene pagato dai suoi genitori. Si trascina ogni giorno nel mondo
portandosi in testa un’incredibile quantità di pensieri negativi, che non osa
pronunciare ma che così facendo macerano dentro di lei: la negatività – verso
il suo lavoro, verso il suo ex fidanzato, verso la sua unica amica, verso la
sua vita in generale – fa da sfondo a una vita grigissima e monotona, quasi
abbrutente, soprattutto perché la vediamo attraverso gli occhi di Millie. Una
prospettiva in prima persona completamente inaffidabile: Millie non è onesta
nemmeno con se stessa, e nell’altalenare tra la rabbia e il vittimismo, tra il
disgusto e l’autocompiacimento, capiamo subito che si tratta di una protagonista
troppo vera, troppo poco letteraria, per poterci identificare in lei. A maggior ragione dal momento che l’autrice
inserisce nella narrazione di Millie capitoli focalizzati su altri personaggi,
narrati in terza persona, che suggeriscono quanto Millie sia una donna
qualunque, tutt’altro che eroica, una qualsiasi vita insensata in mezzo a un
mare di vite insensate.
“C'è la familiarità degli incubi nei miei risvegli di ogni mattina. La qualità della luce, che è di una specie di grigiastro cupo, il corpo irrigidito, l'odore un po' di vestiti sporchi, un po' di olio per friggere, un po' di pattumiera, un po' di incenso. Tutto ciò mi ricorda la mia grande paura di morire e il fatto che ogni mattino è solo un altro giorno che se ne va.Resto distesa a letto per venti minuti, immersa in questa sensazione, poi faccio il caffè e mi vesto, niente doccia. Poco dopo sono di nuovo in metropolitana e la sensazione si è relativamente attenuata, rimpiazzata dall'ostilità.” (p. 27)
Eppure a Millie
manca qualcosa rispetto a tutti gli altri. La sua narrazione in prima persona,
la sua incapacità di ancorarsi a un qualsiasi pensiero, è la sua dannazione: Millie
la millennial è una soggettività troppo mobile per fermarsi su una persona, su
un lavoro, su un’idea. Incapace di guardare al di fuori di sé, ma anche
incapace di guardarsi dentro. Un’anima bloccata in un Antinferno eterno, senza
speranza di qualsivoglia esito, che sia positivo o negativo.
E ci sarà uno
scioglimento finale, sì – ma in che direzione, non ci è dato sapere. Se non
corressi il rischio di perpetuare la solita logica che caratterizza la cultura
americana neoliberale, oserei quasi dire che sta a Millie decidere di troncare di
netto il filo che la collega alla sua “vecchia me” e diventare una Millie
migliore, la Millie che desidera tra un pensiero sconnesso e l’altro: ma alla
fine la storia di Millie ci insegna che non siamo noi a decidere di diventare
nuove, e che molto spesso è la vita ad accaderci intorno e a portarci a essere
versione varie di noi stesse. Ecco dunque l’unico comandamento dell’etica
millennial: fatti trasportare e cerca di essere contenta di quel che ti capita.
Un comandamento che sarebbe veramente deprimente… se non avesse un fondo di verità.
Marta Olivi