«C'è un destino comune per chi scrive, e si rivela nella prosa degli altri»: intervista a Matteo Corrente, sul suo "La fuga di Anna"

 



Anna come ce ne sono tante... non proprio. La Anna che racconta Mattia Corrente è un mistero in parte insondabile, che resta tale anche dopo la lettura del bel romanzo d'esordio dell'autore siciliano. La fuga di Anna, edito da Sellerio nel 2022, continua ad affascinare i lettori italiani e si appresta a varcare la frontiera e ad approdare in Francia nel 2024; sarà anche tradotto in Polonia e in Repubblica Ceca.

Il romanzo narra, con un intreccio prezioso e una focalizzazione multipla, la storia di Severino, un uomo anziano che decide di cercare la moglie Anna, scomparsa nel nulla. Anna, nonostante sia ultrasettantenne, ha deciso di cambiare vita, la sua fuga è l'affermazione tardiva della sua personalità, il rigetto di un matrimonio mai voluto forse, al pari della sua maternità. Dopo un anno di attesa, Severino decide di abbandonare Stromboli (e qui l'isola non è approdo, come per Ulisse, ma approdo fallito, nostos non compiuto) per cercare Anna; prende il suo inseparabile Borsalino e compie un viaggio che solo apparentemente è a ritroso. Cercando ciò che la moglie è stata e ciò che lui è stato accanto a lei, Severino scopre anche ciò che poteva essere. 

La fuga di Anna
di Mattia Corrente
Sellerio, 2022

pp. 250
€ 16,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

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Il tema dell'identità e della possibilità sono due temi tipicamente novecenteschi, mi verrebbe da scomodare Pirandello e Musil, giusto per fare tremare le vene e i polsi. Ma questa Anna che fugge è un poco come l'Angelica che fugge nell'Orlando Furioso e che mette in moto un meccanismo narrativo: uno sparigliare la vita definita. 

La vita definita dalla pretese sociali, i ruoli, il posto che gli altri vogliono che noi occupiamo nel mondo. L’identità è una forzatura, un marchio che ci segna omologandoci verso un sé che deve contenere dei tratti riconoscibili, controllabili, contenuti in uno schema rassicurante per noi e per gli altri. Anna non può liberarsi dallo schema perciò fugge. La fuga come una ribellione a quel perenne gioco di specchi in cui ci riconosciamo sempre e non ci riconosciamo mai, e che nella vita, pure se riduciamo in pezzi, restano schegge e di nuovo si riflettono innumerevoli versioni di noi. Se non esiste una sola versione di Anna, Anna sperimenta la “follia” di dire basta. Succede a Vitangelo Moscarda in Uno, nessuno e centomila, per esempio, anche attraverso un evento apparentemente insignificante. Moscarda dà il via alla sua deflagrazione identitaria dopo avere scoperto dalla moglie di avere il naso storto, Anna comincia la sua dal giorno in cui suo padre scompare. La scomparsa di Peppe è un difetto esattamente come il naso storto di Moscarda, una stortura che innesca in Anna la consapevolezza di non essere per gli altri quello che lei vorrebbe essere per se stessa. 

Spesso la letteratura usa il viaggio come momento topico di un Bildungsroman. Tu però hai fatto qualcosa di diverso, perché colui che intraprende il viaggio è un uomo anziano. Ho amato molto questa nuova lente attraverso cui guardare la vecchiaia. Definiresti comunque il tuo romanzo un "romanzo di formazione"?

Un romanzo di “sformazione” forse, visto il viaggio all’indietro di Severino. Non siamo di fronte a un vecchio che scava nel suo passato, ma a un uomo che si ritrova costretto a riscriverlo. La vita di Severino prima della fuga di Anna si rivela una farsa, la sua vera storia è racchiusa dentro una teca e lui può solo guardarla da fuori, non gli è più possibile rompere il vetro e riappropriarsene. La libertà di essere se stesso è andata perduta. Resta solo l’ultimo pezzo corto della vita, uno scampolo di esistenza in cui questo vecchio sornione possa a dire a se stesso: la libertà che posso concedermi è sapere dove non voglio più stare. 

Il viaggio comunque ci fa pensare anche e immancabilmente a Ulisse. Un Ulisse senza ritorno, il tuo, e forse più che al viaggio dell'Ulysses di Joyce, mi viene da pensare a quello narrato nell'Horcynus Orca del tuo conterraneo Stefano D'Arrigo. Come autore siciliano senti il confronto con la letteratura della tua terra? Ne hai assunto qualche modello? Vi è una specificità della letteratura siciliana da cui tu hai preso spunto?

Non scomodiamo D’Arrigo, tremano a me vene e polsi altrimenti. La mia terra ha partorito voci come Sciascia, Pirandello, Consolo, giusto per citarne alcuni che sono per me autori canonici. A loro ho chiesto aiuto. C’è un destino comune per chi scrive, e si rivela nella prosa degli altri, una prosa come una profezia universale che gli scrittori si tramandano nel tempo, si parlano tra le parole, per non sentirsi soli nell’interminabile tirocinio che è la scrittura. Ho riletto Il fu Mattia Pascal e ci ho trovato dentro la strada per scrivere il mio romanzo. Nella prosa di Consolo ho riconosciuto la Sicilia metamorfica e versatile che volevo accompagnasse i miei personaggi. Amici di penna, questo sono stati per me. Non mi sono limitato a prendere spunto da loro. Diciamo che ho chiesto dei consigli, delle dritte che con le loro opere sono arrivate. 

Il contenuto è anche forma e la forma del tuo romanzo è complessa, nel senso che rispecchia la perdita di centralità dell'io. Abbiamo vari punti di vista. Come hai scelto questo tipo di intreccio?

La struttura di un romanzo è il romanzo. La fuga di Anna è un corpo narrativo tripartito, governato da un montaggio alternato di punti di vista che cuciono e scuciono il tessuto narrativo lasciando varchi che il lettore riempie per allusione. È il frutto di prove, tentativi che l’opera ha rifiutato indirizzandomi verso la struttura migliore. Se scrivi per il bene dell’opera, quella ti direziona. Ogni personaggio pretende la sua voce, ti chiede di scegliere con attenzione: “vuoi davvero che sia io a parlare? Non mi sento a mio agio, potresti provare con un narratore in terza che mi attraversa e mi vede da fuori? Prova, forse mi sento più al sicuro”. Con i personaggi, io ci parlo. E ci litigo anche. Strutturo e poi scopro cosa succede.

La madre di Anna, Serafina, è una madre possessiva e tirannica, che ha scelto la vita che doveva vivere la figlia. Solo nel momento in cui Anna la seppellisce, sembra emettere un respiro identitario. Eppure, anche Anna è stata una madre "diversa", nel senso che non ha seguito i canoni di un amore materno voluto e messo al centro della propria esistenza. Il tuo romanzo è anche un romanzo che riflette sul tema della maternità, che non può esaurire - mi sembra questo uno dei sensi della fuga della protagonista - l'identità femminile.

È un romanzo sul desiderio di non maternità, sul diritto di non volere essere una madre, che non esiste un destino materno ineluttabile. Anna rimane imprigionata nell’imperativo della madre Serafina: “Una donna nasce per diventare moglie di un marito e madre di un figlio”, un comandamento che non è di certo sparito. La questione della sacralizzazione della maternità è ancora aperta. Fin quando la maternità verrà concepita come un ruolo obbligatorio e non come un’esperienza libera, troppe donne somiglieranno ad Anna. 

Luigi Pirandello diceva che si sedeva alla scrivania, ogni mattina, e i personaggi gli si presentavano davanti, chiedendogli di dar loro parola. In che modo Anna e Severino ti si sono presentati? E, soprattutto, chi ti si presenta adesso? Stai già lavorando ad un nuovo libro?

Anna è l’antagonista di mia madre, una donna che quel destino ineluttabile di madre l’ha accettato a testa bassa. Anna l’ho trovata in un vestito da sposa chiuso in una valigia di cartone riposta in cantina. Era di mia madre. Anna era la donna che sarebbe stata mia madre se non avesse introiettato quel retaggio patriarcale che la voleva solo una moglie e una madre. Mia madre l’aveva nascosta. Io l’ho liberata. Severino sono io da vecchio, forse. 

In una letteratura contemporanea che troppo spesso si arrovella attorno al proprio ombelico, nella quale la figura dell'autore sovrasta e copre quella dell'opera, tu hai scritto un romanzo che, se anche ha tracce di autobiografismo, le ha tenute ben nascoste. Hai rivendicato, così mi sembra, il diritto della letteratura a inventare un mondo parallelo. Qual è, secondo te, oggi la funzione del romanzo?

“Nella narrativa contemporanea ci sono dei limiti ricorrenti: l’io che diventa una specie di gabbia, il memorialismo un po’ patetico, un po’ dolciastro un po’ insistito, l’autoreferenzialità. L’autore avrà le sue responsabilità ma c’è anche una sorta di complicità da parte di un pubblico che ama le ripetizioni, ama le cose già dette, ama sentirsele dire più volte. Ci sono lettori che vengono rassicurati da una narrativa consolatoria, fatta di buoni sentimenti, e invece nella narrativa non ci sono buoni sentimenti o cattivi sentimenti, ci sono i sentimenti. Possono essere violenti, duri, teneri, delicati, cupi. Poco importa. 
Ci sono narratori che assecondano i buoni sentimenti,  e un pubblico che li coltiva allontanandosi dagli aspetti davvero importanti della narrativa che ci propone la presenza delle passioni, la presenza dell’incomprensibile. 
Uno scrittore dovrebbe sempre schiudere degli orizzonti umani rivelatori e abbandonare la piccola e modesta gabbia dell’io che non ci dice mai niente. Non ci racconta più di quello che già sappiamo”
Giuseppe Pontiggia,  “Dentro la Sera, conversazioni sullo scrivere”.

Perdonate la citazione, ma non saprei rispondere meglio di così a questa domanda.

Intervista a cura di Deborah Donato

Immagini riprodotte su autorizzazione dell'autore, che ringraziamo per la disponibilità nell'intervista.