I bambini del maestrale
di Antonella Ossorio
Neri Pozza, giugno 2023
di Antonella Ossorio
Neri Pozza, giugno 2023
pp. 384
€ 19,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
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«Degrado e magnificenza miseria e splendore, più una quantità imprecisa di situazioni intermedie: Gesù ma quante Napoli esistevano? E come diavolo aveva fatto a non accorgersene? [...] Cosa dire, amico mio? Qui ormai si vive di speranza, il giorno che ci venisse a mancare la capacità di nutrire un briciolo di fiducia nel futuro saremmo peggio che morti». (p. 53)
Esiste al mondo un morbo, che a Napoli si chiama fissazione, nell'affidare ogni cosa al destino e alla speranza che vanno a braccetto talvolta ubriachi. Credere che qualcosa di grande possa esistere a muovere i fili ingarbugliati di un'esistenza penosa finanche contorta. Come può un bambino sottoposto a una vita di delinquenza violenta provare a credere che esista un momento di redenzione, di possibilità gratuita in cui potersi sentire solo un bambino, amato e accudito, speciale qualche volta, ma solo un bambino? Come può una nave diventare casa, maestrale, scuola, speranza e di tanto in tanto destino?
Antonella Ossorio restituisce al pubblico una storia di miseria e riscatto, crudeltà e amore nel paesaggio dell'infanzia abbandonata, e con I bambini del maestrale porta alla luce la storia di un singolare esperimento educativo durato quindici anni e bruscamente interrotto dal regime fascista.
È il 1913 quando una donna napoletana della media borghesia, poco più che quarantenne, sale a bordo di una pirocorvetta in disarmo e ci resta per lunghi anni, assumendosi la responsabilità morale della cura e dell'educazione di oltre settecento bambini e ragazzi raccolti per strada.
La donna si chiamava Giulia Civita Franceschi, e fu al timone della Nave Asilo Caracciolo fino al 1928, anni in cui quella nave sarebbe diventata casa sua, oltre che dei tanti bambini nati senza camicia e fuori da quel mondo affettivo che un bambino meriterebbe fin dal primo sguardo sul mondo. Una casa a vela!
Per tutti: i più sfortunati, i persi, i reietti, i senza dimora, gli scappati, i malcapitati, i soli, i manchevoli.
Sono gli scugnizzi scolpiti da Vincenzo Gemito perlopiù gli abitanti della Caracciolo, quei bambini nati e cresciuti nei vicoli dei quartieri, spesso senza famiglia, fuggiti dagli orfanotrofi e dai collegi, qualcuno con piccoli precedenti penali perché la vita, in strada, è fatta di espedienti di sopravvivenza.
Dimorati in una nave che ha fatto proseliti in tutto il mondo riscuotendo un grande successo presso noti pedagogisti come Maria Montessori, Édouard Claparède, governi stranieri e autorità politiche nazionali, sperimentando metodi educativi che avrebbero ottenuto il loro plauso.
La nave fu donata dalla città di Napoli nel 1911 dal Ministro della Marina Pasquale Leonardi Cattolica per istituire un asilo per bambini "a rischio", sul modello della nave officina genovese Garaventa, attiva dal 1883, e della nave asilo veneziana Silla (1906).
Nelle intenzioni di Giulia Civita Franceschi, gli obiettivi della formazione della Caracciolo furono indubbiamente ambiziosi: rendere gli alunni coscienti di agire per se stessi al fine di formare lavoratori competenti e buoni cittadini. Tutto questo era realizzato attraverso l'apprendimento delle professioni associate alla marineria, senza dimenticare l'istruzione di base - leggere, scrivere e far di conto.
Il cosiddetto "Metodo Civita" era caratterizzato da una serie di principi, pochi ma saldi: il valore educativo del lavoro, sia nella sua forma professionale che in quella più semplice e naturale; il valore educativo della convivenza della cura della casa comune; il valore morale della cura espressa nelle relazioni tra bambini e ragazzi di età diverse (oggi meglio conosciuta come metodologia peer to peer, cioè il supporto e l'aiuto tra pari); il valore educativo dell'autodisciplina, che esclude i concetti di premio e punizione. Un risultato raggiunto grazie a chi aveva colto la sfida di trarre da quei bambini e quei ragazzi tutto il buono soffocato e mortificato dagli stenti; ma anche e soprattutto per merito di quegli stessi scugnizzi che desideravano prendere a morsi la vita. Quei caracciolini, come venivano chiamati, erano unici e finalmente speciali per qualcuno.
«Reputo importante che i ragazzi sviluppino un'autonomia di pensiero, sennò addio senso critico, inoltre sono curiosa di saggiare le loro reazioni. In merito a determinati argomenti i giovani maschi tendono a essere piuttosto tradizionalisti, ma è anche vero che i nostri fruiscono di un'educazione poco convenzionale che mi auguro produca buoni frutti su ogni fronte». (p. 305)
Quella di Antonella Ossorio è una scrittura audace, lenta ma molto intima e diretta anche nelle situazioni più strette. L'utilizzo del dialetto napoletano, anche e soprattutto nei dialoghi interiori dei personaggi, non fa che accentuare il bisogno e la necessità di raccontare un mondo vero, che agisce, che soffre e fa a botte con i propri demoni. Quella raccontata da Ossorio è una realtà pura e spietata, che talvolta è ancora presente nei vicoli abbandonati di una Napoli decadente e antagonista di se stessa. La scelta nel dare seconda vita a una storia accaduta più di novant'anni fa, calza a pennello con la perfetta riuscita del racconto, a tratti crudo e spietato, a tratti troppo infausto. La precedente esperienza come insegnante di Ossorio ha il merito di averle fatto comprendere al meglio il mondo dell'infanzia, di cui sembra essere impeccabilmente padrona e dolce conoscitrice. La scrittrice mescolando narrativa storica e "saga sociale", dà vita alla storia di tutti coloro che, con orgoglio e coraggio nel cuore, non rinunciano a cercare la propria strada nella lotta quotidiana tra fortuna e sfiducia. Napoli, in questa cornice storia e culturale, trasmette al lettore una sensazione profonda e magica con una narrazione intima, mai sfuggente, e soprattutto collettiva.
Una rivelazione de I bambini del maestrale, nonostante le ambientazioni talvolta machiste, è l'intento di mettere al centro la figura femminile, in chiave poco tradizionalista o patriarcale o protesa al mantenimento dello status quo. Giulia è una direttrice, pur senza titolo di studio, che ha un certo rispetto e nutre di una forte ammirazione da parte del popolo tutto; il personale didattico sulla nave è prettamente femminile, Nina, Donata, la maestra Donnarumma e inoltre a un certo punto della sua vita, Giulia di batterà per garantire una dimora anche alle scugnizze e le bambine abbandonate a vita propria.
È chiaro che sulla nave Giulia è pronta a raccogliere la sfida rappresentata da quel veliero, e a capovolgere una volta per tutte il destino di quel popolo piegato dalla povertà e dall'abbandono; i bambini e i ragazzi crescono, imparano l'arte dei mestieri, si confrontano e scrivono lettere sul proprio vissuto per presentarsi al mondo e dire "io sono questo, senza passato, senza presente, ma con un futuro da scrivere". Eppure sulla terra ferma c'è un destino che sembra, invece, insanabile per Felice, il bambino che cerca ogni sera un angolo il più possibile riparato dove dormire con gli occhi spalancati del buio e il nome della madre sulla bocca.
«Belli i tempi in cui aveva creduto che a ogni disgusto dovesse per forza seguire un adeguato risarcimento. Povero illuso, figuriamoci se la vita si pigliava la briga di usare certe cortesie; non a lui perlomeno, considerato che da quando viveva per strada non gli aveva riservato che una sequela ininterrotta di bocconi amari». (p. 165)
Felice è un malcapitato, un bambino che, persa la madre, si dedica alla ricerca spasmodica e incessante della stessa perché la zia gli dice che è deceduta, cioè che è andata a stare lontano. Dorme per terra, si nutre di avanzi, scaccia via la fortuna ogni qualvolta che Don Veggiano prova ad azzufarlo per portarlo a bordo della nave. Felice non sa che esiste un'occasione per lui e inevitabilmente, ogni sua scelta azzardata, insensata ed egoista lo porta ad allontanarsi sempre di più all'unico anelito di vita possibile:
«è proprio vero che la mancanze di parole rende più pesante il campare». (p. 325)
Felice sa di essere analfabeta, e ne soffre, non capisce la lingua dei borghesi, non conosce nessun personaggio illustre, cosa che gli costerà un arresto di lunghi mesi, non riesce ad istaurare nessun intesa sociale, se non quella col suo io più profondo. Durante il racconto il suo evolversi è molto chiaro, ma la sua ricerca di identità resta tale fino alla fine. Felice non si accontenta di non sapere, non si accontenta di non avere eppure sa che per lui non ci sarà nessuna svolta, nessuna redenzione capace di restituirgli la madre Catarinella, che tanti anni prima, da bambino, durante un inseguimento a Via Toledo, scambia proprio per Giulia.
Due destini che sono intrecciati, incatenati dalla foga di chi scappa eppure arriva, che continuano a cercarsi tra i vicoli per sfiorarsi appena, due vite che hanno la sola presunzione di avere in comune una voglia sconfinata di riscatto, perché certi segnali non arrivano per caso e il segreto per non farsi cogliere impreparati dai cambiamenti sta nel saper afferrare i messaggi che il vento soffia, ma il «dolore», a volte, «è viscido come un anguilla, tanto più provi ad agguantarlo più scivola verso il fondo». (p. 31)
Serena Palmese
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