Nannina
di Stefania Spanò
Garzanti, aprile 2023
pp. 224
€ 16,80 (cartaceo)
€ 9,99 (e-book)
Come è possibile che a tutta la mia famiglia sia venuta la malattia che cancella i ricordi? E perché io per Secondigliano non sono la nipote della cuntastroppole, invece che la nipote della Pazza? Perché? (cit. 53)
Stefania Spanò, insegnante, interprete Lis e cantastorie, restituisce a questo romanzo d'esordio tutta la sua esperienza intima e professionale: Nannina - la storia di un quartiere, di un rapporto magnetico tra nonna e nipote e di una tradizione che si è quasi persa del tutto, quella dei "cunti" - narra di una donna realmente esistita, la nonna paterna dell'autrice, che portava proprio il nome di Nannina e che era realmente una "cuntastroppole".
Ma cos'è una "cuntastroppole"?
Il romanzo ci porta a Secondigliano - un quartiere a nord di Napoli conosciuto per essere una delle zone a rischio, come si dice in gergo, della città - seguendo due linee temporali: la prima, inserita negli anni '90, che dà voce a Stephanie (riprende volontariamente il nome dell'autrice), una bambina di dieci anni protagonista e narratrice delle vicende; la seconda, tra gli anni '50 e '80, che ci fa scoprire la figura carismatica ed estremamente sfaccettata di Nannina, sua nonna paterna.
Una persona con più facce: Anna Grimaldi detta Nannina De Gennaro, Nannina 'a cuntastroppole, Nanninella 'a Pazza, una donna nel mezzo esatto tra la genialità e la follia. Da giovane diventa famosa per i suoi "cunti", le sue storie narrate e recitate a voce in un cortiletto a Mianella o ai matrimoni, alle feste rionali, persino ai funerali, tutte pensate per la gente del quartiere come fiabe pezzenti, senza morale, senza giudizio, una stroppola appunto, «un cunto senza pretese, fatto così, per stare insieme.» (p.41)
Nannina è così brava che quella di "cuntare" diventa una vera e propria professione.
Le risate delle femmine le facevano il solletico al cuore. Sguaiate, deliranti. Non erano femmine, era il suo clan di janare che rivendicava il sacrosanto sfogo. (p 46)
Dunque leggiamo come Nannina riesca a diventare un punto di riferimento per il quartiere, un luogo difficile, stretto tra la miseria e la criminalità. Le sue favole danno voce anche a questo, alla sofferenza, alle pene della gente comune, sono una sorta di magazzino in cui assorbire le afflizioni della gente per poi restituirle abbellite, romanzeggiate, colorite. Danno voce alla tragedia di Secondigliano avvenuta nel 1996, una disgrazia che causò una voragine e molte vittime; danno voce al terremoto dell'80, ma anche alle ultime volontà dei defunti che, non avendo avuto il coraggio di parlare in vita, affidano a Nannina il racconto della propria esistenza, e pure i testamenti. Sarà in una di queste sue missioni che Nannina finirà chiusa in manicomio, senza sapere come e perché.
In quel momento fu grata alla vita per averla fatta nascere là e grata a chi le aveva insegnato a riconoscere tanta bellezza tra le fiamme dell'inferno e a non abituarsi mai, né alla bellezza né all'inferno. (p. 114)
La tragedia di Secondigliano sarà il motore che spingerà Stephanie a voler seguire le orme della nonna: anche lei vuole diventare una cuntastroppole, vuole raccontare il quartiere con i suoi occhi. Da bambina di dieci anni, appassionatamente legata a suo padre Francuccio e molto meno a sua madre Adelina - con la quale avrà il classico rapporto conflittuale madre/figlia femmina - la seguiamo per qualche anno, sino agli inizi del 2000. Stephanie è una ragazzina intelligente, testarda, "stuppagliosa" come dirà sua zia Rosetta, intendendo definire un carattere cocciuto ma persuasivo: sarà in grado di assorbire l'arte di sua nonna e di farla sua, barcamenandosi tra i primi amori, le baruffe a scuola (e qui si vede tutta l'esperienza come insegnante di sostegno dell'autrice), il giorno dell'arrivo del ciclo, le amicizie femminili, la sopravvivenza in quel quartiere. Solo una volta lei e Spanò ci portano al di fuori: di Napoli, la città che conosciamo ormai benissimo, c'è poco e niente, uno spicchio di mare di fronte al quale Stephanie urlerà per il dolore.
La nostra piccola protagonista non impara solo a "cuntare", ma anche a prendersi cura degli altri, a capire che una donna deve prendersi con la forza il posto che le spetta nel mondo, a interpretare il carattere di una nonna a cui, volente o nolente, assomiglia molto.
La sua evoluzione è evidente: se all'inizio del testo Stephanie parla come una bambina usando termini dialettali, frasi smezzate, un registro e un tono più fanciulleschi, alla fine ci renderemo conto piano piano di come si sia raffinata, di come i libri che tanto ama leggere l'abbiano cambiata. Ce ne accorgiamo non solo nel ritocco stilistico, ma anche nel modo di affrontare la sua famiglia: si tratta, dopotutto, di una bambina che diventa una giovane donna, ha il diritto di sbagliare e di correggere il tiro.
La sua evoluzione è evidente: se all'inizio del testo Stephanie parla come una bambina usando termini dialettali, frasi smezzate, un registro e un tono più fanciulleschi, alla fine ci renderemo conto piano piano di come si sia raffinata, di come i libri che tanto ama leggere l'abbiano cambiata. Ce ne accorgiamo non solo nel ritocco stilistico, ma anche nel modo di affrontare la sua famiglia: si tratta, dopotutto, di una bambina che diventa una giovane donna, ha il diritto di sbagliare e di correggere il tiro.
Su una cosa si sta sbagliando: non è necessario che la faccia fuori per prenderne il posto. La necessità di uccidere i padri è un'invenzione dei maschi, io, femmina, mia nonna me la mangerei per seppellirmela dentro e srotolarne il cordone ombelicale, dalla coda di questo Novecento fino al ventunesimo secolo. Racconteremo insieme e lo faremo a sua insaputa. (p. 181)
Le descrizioni del quartiere sono vivide, pare quasi di poter toccare quei luoghi, quelle persone, e questo perché l'autrice sa di cosa parla, essendo nata a Secondigliano. Ma ciò che più mi è piaciuto, oltre alla figura di Nannina, donna divertentissima, acuta, e oso dire, indimenticabile, è il modo in cui Spanò ha trattato la lingua: ultimamente mi è capito spesso di leggere e recensire testi che hanno scelto il dialetto napoletano, o comunque la sua cadenza vernacolare, come mezzo di espressione - ad esempio "Morte per grazia ricevuta" di Simona Pedicini o "Uvaspina" di Acito, come anche mi è capitato di leggere dei classici come "Messico napoletano" di Peppe Lanzetta e "Althénopis" di Ramondino - e, nel caso degli esordi, ciò che non mi ha convinta era la resa o grottesca o scorretta del linguaggio.
Spanò, in questo romanzo, finalmente!, usa la lingua napoletana in modo corretto e bilanciato: c'è il giusto equilibrio tra frasi dialettali e parlata "volgare", la resa non è né innaturale né sgraziata, i discorsi diretti sono credibili, comprensibili anche a chi non mastica il napoletano, eppure risultano profondamente veri. Il tono e lo stile, in termini generali - a parte qualche eccesso all'inizio del testo o qualche espressione "alla Liberato" alla fine (ma sto davvero cercando il pelo nell'uovo) - sono coinvolgenti: pare di sentire davvero parlare una nonna e una nipote di Secondigliano, senza sbavature, senza quel clic fastidioso che scatta quando si legge qualcosa che non torna.
Spanò non cade nell'errore comunissimo di rendere i personaggi popolari delle macchiette: è vero che Nannina, Stephanie e tutta la famiglia sono di Secondigliano, ma non per questo il loro linguaggio deve essere gretto, volgare. Non c'è alcuna volgarità qui, nonostante la descrizioni e l'uso di termini scurrili e persino bestemmie. Queste vengono ben calibrate da un'eleganza terrena che l'autrice padroneggia benissimo, tarate sull'ambientazione e sul contesto ma elevate dal fine letterario.
Spanò non cade nell'errore comunissimo di rendere i personaggi popolari delle macchiette: è vero che Nannina, Stephanie e tutta la famiglia sono di Secondigliano, ma non per questo il loro linguaggio deve essere gretto, volgare. Non c'è alcuna volgarità qui, nonostante la descrizioni e l'uso di termini scurrili e persino bestemmie. Queste vengono ben calibrate da un'eleganza terrena che l'autrice padroneggia benissimo, tarate sull'ambientazione e sul contesto ma elevate dal fine letterario.
Quando si chiude l'ultima pagina si sente la mancanza di entrambe, di nonna e nipote: è uno di quei rapporti con cui empatizzare, perché è probabile che molte donne da bambine abbiano intrecciato un rapporto simile con la propria nonna, un rapporto fatto di dolcezze, incomprensioni dovute alla grande differenza d'età, di litigi persino e di momenti di silenzio.
Consiglio la lettura di questo romanzo a chi ha letto Peppe Lanzetta, grande cantore della periferia napoletana, Ramondino, Ortese. Come non citare poi Giambattista Basile con il suo Lo cunto de li cunti e Salvatore di Giacomo con Novelle napolitane?
Deborah D'Addetta
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