La mia vita con il Maestro era stata tutto un susseguirsi di madame: ma quelle passavano, io sarei rimasta. (p. 181)
A centosessant’anni dalla nascita del Vate, Neri Pozza rilancia un romanzo storico che nel 2003 ha avuto un ottimo successo di pubblico e di critica: Aélis, esordio della scrittrice Chiara Aurora Giunta.
La narrazione corre in avanti su un doppio binario temporale: quello della sera del primo marzo 1938, quando il poeta muore colto da un ictus cerebrale mentre lavorava alla sua scrivania e prosegue fino ai pomposi, ma frettolosi funerali organizzati dall’entourage di Mussolini, e quello delle origini della relazione tra la protagonista e il celebre artista.
Il romanzo si basa rigorosamente su fatti storici e personaggi veramente esistiti: Aélis era il nome che d’Annunzio aveva dato ad Emilie Mazoyer, una ventenne entrata al suo servizio, quando lui aveva già quarantotto anni e la sua fama dilagava per l’Europa. Era il 1911 e il poeta, durante il suo soggiorno parigino, avendo bisogno di una cameriera ubbidiente e dalle curve al posto giusto, si era rivolto a uno dei suoi amici francesi, Monsieur Schürmann, il quale aveva deciso di cedere l’umile francesina che aveva al suo servizio da qualche tempo all’esuberante italiano.
In Francia il nome di Gabriele D’Annunzio era ovunque, in quel periodo avrebbero inscenato il suo Le martyre de Saint-Sebastien (rivelatosi poi un fiasco totale) ed Emilie, che proveniva da una famiglia contadina di Archacon, sognava una vita di lustrini, di bei vestiti, sotto le luci del palcoscenico e sognava ad occhi aperti di incontrare proprio il grande Maestro italiano: se lo immaginava serioso, imponente, «con una grossa voce da baritono e una barba lunga e fluente da vecchio saggio». (p. 19)
Lo stupore fu immenso quando, in uno degli appartamenti dell’Hotel d’Iéna, condottavi dal signor Antongini, segretario personale del Vate, se lo trovò di fronte:
Era molto più snello e piccolo di statura, anche un po’ emaciato e, se non fosse stato per l’aura che lo circondava, si sarebbe potuto confondere nella folla. Il volto calamitò la mia attenzione: affilato, guarnito da un pizzetto appena accennato, con due baffetti impertinenti. Sotto la bella fronte ampia, accentuata da una parziale calvizie, spiccava il naso; ma quello che mi colpì maggiormente fu l’espressione caparbia, accentuata dalla forma degli occhi, un po’ sporgenti. (p. 27)
Emilie si ambientò subito nella sua nuova vita e si abituò alle bizzarrie del maître: era molto ambiziosa e quando divenne subito l’amante del padrone, lungi dal provare vergogna o imbarazzo di fronte agli altri che avevano capito il tenore della relazione con lui, era sempre disponibile, non lo avrebbe mai deluso. Lo stesso nomignolo di Aélis - abitudine cara al Vate quella di appioppare nomi anche a parti del corpo -, richiamava la parola “elica” in francese: «capii subito cosa voleva. Lui mi aveva insegnato cosa fare, come assecondare il suo piacere. Ero diventata brava, Aélis… mi volle chiamare… mi aveva dato il nome più appropriato: ero l’elica compiacente del vortice del piacere» (p. 66).
La ragazza era divenuta non soltanto la cameriera devota, ma anche l’amante prediletta, disposta a tutto pur di compiacere l’adorato Comandante, considerato potente, intelligente, superiore a tutti gli uomini e, come testimonia la voluminosa documentazione del Vittoriale degli Italiani consultato da Giunta e l’intervista a Emilie Mazoyer rilasciata al periodico parigino «Carrefour» nel 1950, se qualche donna gli si negava era solito ricordare che lui era un dio e quindi sarebbe stato un onore essere sua. Aélis non voleva dapprincipio essere trattata come una cameriera dalle altre persone, poiché desiderava essere rispettata come amante ufficiale del grande poeta, ma dovette poi imparare a proprie spese che invece il suo caro maître aveva un'energia sessuale inesauribile e aveva bisogno continuo di circondarsi di belle e giovani donne per nutrire - parole di lui - il proprio genio creativo.
Odiavo essere trattata da cameriera soprattutto da quelle donne: figlie, amanti, mogli, insomma da tutta quella eterogenea compagnia che di volta in volta credeva di essere l’angelo custode del Maestro. Uscii dalla stanza sbuffando e pestando i piedi mentre raggiungevo la porta che lasciai socchiusa, in modo da poter vedere e sentire tutto. (p. 139)
Aélis pur di vedere felice l’uomo che ama accetta di procurargli le ragazze che aveva adocchiato ricorrendo, negli ultimi anni, anche ai postriboli e non solo. Dopo la deludente esperienza fiumana, “l’illustre italiano“ faceva largo uso - con la complicità della pianista Baccara, altra sua amante - di cocaina, che lui chiamava “tavolette di Persia”. Aélis portava a termine anche l’incarico della preziosa e faticosa ricerca di questa polverina bianca.
Il lavoro di Giunta rispetta la biografia di D’Annunzio, dalle opere letterarie ai motti, ai magnifici locali del Vittoriale sul lago di Garda, all’arredamento, ai vizi dettati dal desiderio sfrenato di lusso e alla lussuria a dispetto dei debiti, fedeli compagni fino alla morte di lui. L’autrice delinea il rapporto complicato con Mussolini, evoca con efficacia il periodo della reggenza di Fiume, seguendo fedelmente la cronologia degli eventi, introducendo però nei paragrafi relativi agli attimi dopo la morte del poeta pescarese l’ipotesi dell’avvelenamento ordito dal Duce che era consapevole da tempo ormai che «D’Annunzio poteva essere molto pericoloso se non veniva preso per il verso giusto» (p. 230).
Le vicende storiche si intrecciano sapientemente con i fili dell’ordito principale, quello della profonda, unica storia d’amore senza speranza di Aélis, una donna che annulla sé stessa, abbandona la famiglia di origine, la campagna francese, sopporta tutto presa dall’ammirazione infinita per quell’uomo d’eccezione:
Perché il Maestro mi ha sempre voluta al suo fianco, ero la sua piccola francese. Sono stata la serva più fedele, l’amante più disponibile, la compagna più devota. Per quasi trent’anni ho condiviso con lui una vita straordinaria, senza mai pentirmi di nulla. (p.33)
Marianna Inserra