Il processo
di Franz Kafka
Il Saggiatore, 2023
Traduzione di Valentina Tortelli
€ 18 (cartaceo)
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Scritto tra l'agosto del 1914 e il gennaio del 1915, ma pubblicato postumo nel 1925, Il processo di Franz Kafka è senza alcun dubbio un monumento nella letteratura del Novecento. Quando a fine secolo, precisamente nel 1999, il quotidiano francese Le Monde lanciò un sondaggio fra i suoi lettori per stilare una lista dei libri più importanti del XX secolo, nonostante l'indubitabile "francocentrismo" delle risposte (ben sedici delle prime 30 posizioni sono occupate da autori francesi), il boemo Kafka, che scriveva in tedesco, riuscì comunque a conquistare la terza posizione con Il processo.
La pubblicazione di una nuova edizione italiana, con la traduzione di Valentina Tortelli, a fine aprile 2023 da Il Saggiatore, costituisce un ottimo spunto per un invito alla lettura (o alla rilettura) di quest'opera epocale.
SENZA ALCUN MOTIVO
Illogico? Assolutamente sì. Kafka ama metterci subito davanti, basti pensare all'incipit de La metamorfosi, davanti a un paradosso. Mette subito le carte in tavola con il suo lettore: non vi sto fornendo alcuna verosimiglianza, state entrando in un mondo "altro". Con questa consapevolezza, entriamo nella stanza di Josef K., che vive presso l'affittacamere signora Grubach. K. aspetta la colazione, invece arriva un uomo che non aveva mai visto, con un vestito nero attillato con tasche, fibbie e bottoni. «Lei non può allontanarsi, lei è in arresto» gli dice. «Pare proprio di sì» disse K. (e in questa frase così stridente, distante da un colloquio convenzionale, vi è tutto il mondo kafkiano) e poi aggiunse la fatidica domanda: «E perché?». «Non siamo autorizzati a dirglielo» risponde l'uomo, che nel frattempo è stato raggiunto da un collega. Le due guardie iniziano a parlare di una "istituzione", "organizzazione", di un "procedimento". La conversazione prosegue sul filo dell'insensatezza, fin quando, Josef K. alla fine del primo capitolo, prova a ricondurre la faccenda all'interno di una logica rivolgendosi all'ispettore: «Mi si accusa, senza che riesca a individuare la seppur minima colpa di cui essere accusato. Ma anche questo è secondario, la domanda fondamentale è: chi mi accusa? Quale autorità istruisce il procedimento? Lor signori sono funzionari pubblici?». (p. 19)
Tutte domande che, ovviamente, sono destinate a restare senza risposta. Nel primo come negli altri nove capitoli del romanzo.
K.: UN PERSONAGGIO DESCRITTO PER SOTTRAZIONE
L'enigma non è solamente la colpa di Josef K., ma anche la sua identità. Ancora conosciamo il nome di battesimo, mentre ne Il castello il protagonista sarà nominato semplicemente K. Resta tuttavia che l'assenza di cognome è un'assenza di determinazione, una privazione di identità. Il personaggio di K. è descritto per "sottrazione": non ha un carattere ben definito, una fisionomia riconoscibile, nessuna analisi psicologica ci viene fornita. Non sappiamo davvero cosa egli pensi del suo calvario giudiziario: egli agisce in un mondo assurdo e, in quanto privo di idee e passioni, perfino di reazioni verosimili; così, finisce per risultare anch'egli assurdo agli occhi del lettore. Inizialmente saremmo tentati di qualificare Josef K. quanto meno con un aggettivo: "innocente". Ma già nel secondo capitolo Kafka ci toglie da sotto i piedi questa certezza: «Ma lei pensa che io sia innocente?» chiede a p. 33 Josef K. alla signorina Bürstner «Innocente...» rispose «Be', non voglio dare su due piedi un giudizio che potrebbe avere pesanti ripercussioni, e poi non la conosco».
In effetti, e in una maniera del tutto illogica ma potente, il lettore avvertirà con sempre più forza che Josef K. in fondo non è innocente, pur non avendo commesso alcun reato. Ciò anche perché una delle poche cose che caratterizza quest'uomo senza qualità (e Musil non ce ne voglia) è una progressiva introiezione della colpa, che viene al meglio rappresentata nella visita al duomo di Praga, quando il prete dal pulpito si rivolge proprio a lui, in una chiesa tristemente deserta. Josef K. è privo di identità, la sua storia personale è del tutto assimilabile alla sua storia processuale. Egli è il processo che subisce. Spersonalizzato e vuoto, egli appare una maschera, un uomo senza volto come quelli di Magritte. Per questo e per tanti altri motivi, Josef K. è uno dei simboli più tragicamente veritieri dell'uomo novecentesco.
DAVANTI ALLA LEGGE
Durante la visita al duomo di Praga, Josef K. ascolterà il prete narrargli una parabola, intitolata Davanti alla legge. La parabola narra di un uomo di campagna che spera di varcare il portone, oltre il quale vi è la Legge. Ma tale portone è sorvegliato da un guardiano che dice per molti anni all'uomo che lui non può passarvi. L'uomo aspetta presso l'entrata per anni, tentando di corrompere il guardiano con i suoi averi; il guardiano, pur accettando le offerte, non lo fa entrare. L'uomo attende presso il portone fino a che non sta per morire, proprio in quel momento chiede al guardiano perché in tutti quegli anni nessun altro uomo è venuto davanti alla porta. Il guardiano risponde: «Nessun altro poteva entrare qui perché questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo».
Dopo questa parabola, che Josef K. tenta inutilmente di interpretare, arriva il momento finale anche della sua vita.
Josef K., al pari dei lettori de Il processo, resta con una allegoria senza soluzione, con una interpretazione mancata, che rigetta la sua comprensione dell'enigma nell'angoscia, nella insensatezza del vivere.
La parabola viene narrata dal prete per distogliere Josef K. dalla voglia di comprendere il suo processo; anzi, forse la sua volontà "illuministica", la voglia di analizzare e rendere chiare le cause delle cose, la vera scaturigine dell'assurdità in cui si trova immerso. Il portone era aperto, è lui che non è stato capace - o degno - di entrare. Tutte queste considerazioni fluttuano, naturalmente, all'interno di una domanda fondamentale: cosa significa l'allegoria del processo?
L'ALLEGORIA VUOTA
Chi l'ha detto che per godere di un'opera d'arte, bisogna comprenderla? Kafka, come scrisse acutamente Walter Benjamin, ha preso tutte le misure possibili contro l’interpretazione dei propri testi. La "verità" del romanzo appare, al pari della Legge della parabola, custodita da un guardiano inflessibile (lo scrittore stesso), che ha lasciato un enigma ai propri lettori. Sempre Benjamin coniò, anche per accostarsi all'opera di Kafka, il concetto di allegoria vuota, mentre Romano Luperini ha parlato di allegoria del moderno, intendendo entrambi una allegoria che, a differenza di quella tradizionale, presenta una sfaldatura fra significante e significato, uno slittamento inarrestabile dell'interpretazione. Ne Il dramma barocco, infatti, Benjamin definiva l'allegoria vuota come una figura che esprime un bisogno di significato che resta senza risposta.
Quindi il Tribunale del romanzo di Kafka può rappresentare:
1 - un Dio implacabile
2 - la società alienante
3 - la burocrazia
4 - un complesso edipico
5 - l'esigenza fondativa di senso.
Forse, la grandezza di Kafka sta nel fatto che il Tribunale rappresenta tutto questo insieme e nella indecidibilità di una interpretazione a scapito di un'altra, abbiamo la rigogliosa vastità delle riflessioni che Il processo suscita.
Deborah Donato