di Gabriella Dal Lago
66thand2nd, giugno 2023
pp. 176
€ 15 (cartaceo)
Quasi tutto quello che fanno è dimenticabile e sarà dimenticato; e mentre lo fanno, continueranno a leggere newsletter e articoli e guardare film e serie tv che parlano della fine di tutto quello in cui vivono immersi: la fine dei social network, la fine di internet, la fine del capitalismo, la fine del mondo. (p. 110)
È un romanzo di macerie, Estate caldissima, seconda opera di Gabriella Dal Lago, appena pubblicata da 66thand2nd. Ed è, perdonatemi il gioco di parole, un’opera incendiaria. Almeno per me, che tra queste pagine leggo la mia generazione (i trentenni o giù di lì) e un ambiente professionale nel quale in parte mi muovo anch’io (il mondo della comunicazione). Se ne sta già discutendo molto, specie tra chi appunto si ritrova in queste pagine, ma la mia percezione è che non sia solo un romanzo generazionale, pur dando voce e corpo in modo tanto chirurgico a una generazione precisa appunto: è un romanzo che fotografa la nostra contemporaneità, la crisi e la precarietà delle nostre vite, il mondo che cambia a un ritmo sempre più vertiginoso, la complessità dei rapporti – tra generazioni, tra individui, tra noi stessi – , un meccanismo che a un certo punto si è inceppato. Gabriella Dal Lago, mediante una lingua affilata che talvolta sfocia in una sorta di flusso di coscienza, dà voce sulla pagina ai pensieri che si aggrovigliano nella testa dei personaggi che popolano la storia, arrivando a una narrazione matura, che compie un balzo importante rispetto all’esordio – già interessante –, in cui forma e storia trovano la loro ideale connessione. Un romanzo imperfetto per certi versi, ma vivido, puntuale, importante.
Estate caldissima è una storia corale: al centro ci sono sette adulti e un bambino (più una gatta, che insieme a lui risulterà essere personaggio non così marginale come ci si aspetterebbe) su cui lo sguardo del narratore esterno – quasi onnisciente, ma in un modo diverso dalla postura tradizionale – si posa, alternandosi. Sono tutti colleghi di Bomba Agency, l’agenzia di comunicazione fondata da uno di loro, Gian, e nella casa in campagna di lui si ritrovano per una settimana di immersione nel lavoro e fuga dalla grande afa che attanaglia la città in quell’estate caldissima, insieme al figlio di Gian e alla gatta della sua compagna e collega Greta. Stanno lavorando a una proposta per un cliente importante, con tutto il carico di ansie, idee, progetti e frustrazioni che questo comporta; ma è quello che si portano dietro – i fantasmi, le illusioni, le speranze, le fragilità – a incendiare quei giorni di convivenza.
Ci sono varie chiavi di lettura con cui è possibile entrare in questa storia, interessante tanto dal punto di vista tematico che strutturale. La prima e più immediata è quella cui si accennava all’inizio, la connotazione generazionale e professionale: la precarietà e la crisi che molti trentenni conoscono bene, le aspettative che si sono scontrate con la realtà, la distanza incolmabile con i sogni e le possibilità della generazione che ci ha preceduti; il lavoro creativo, di cui quello di Bomba Agency è un esempio ma che ben inquadra molte delle sue sfaccettature e criticità, il confine labile – quando proprio inesistente – tra vita professionale e privata, l’evanescenza di ciò che si produce.
Parto da quest’ultimo punto, dal valore del lavoro creativo o, almeno, di un certo tipo. Forse nell’ambiente culturale vogliamo credere – illuderci? – che per noi sia diverso, che quello che creiamo – contenuti per i social, riflessioni e approfondimenti critici, momenti di incontro – abbia un valore oltre il momento presente, che possa inserirsi in un discorso più ampio e durevole; che lasci un’impronta. Ma è comunque una riflessione che ci troviamo spesso a fare, almeno per la parte di lavoro che finisce sui social, per quanto sia solo una parte appunto e non la più importante.
C’è poi il discorso sulla crisi, sulla fine, che impregna ogni pagina di questo romanzo, è una costante nei pensieri di Gian, Greta, Carlo, Alma e degli altri: facciamo un lavoro che fino a quindici anni fa o anche meno non esisteva, non in certe forme almeno, che succede se domani i social e internet scomparissero per sempre? Che cosa succederebbe al nostro lavoro, ma soprattutto a noi? Ce lo chiediamo o dovremmo farlo tutti, che sul web ci lavoriamo o meno, fa parte comunque delle nostre vite, delle nostre relazioni, del mondo che conosciamo, su cui abbiamo costruito un equilibrio che si spera essere il più sano possibile tra vita reale e online.
E il mondo reale appunto non sembra passarsela tanto meglio, l’afa da cui i personaggi di Dal Lago cercano riparo nella casa in campagna – e che scopriremo sarà solo la prima estate di un lungo, devastante, periodo di siccità – è qualcosa con cui in certa misura stiamo davvero facendo i conti nel quotidiano. Scrivo dalla mia terrazza, in una calda e strana estate ligure, ascoltando le voci di chi si preoccupa per il cambiamento climatico evidente e chi nega ogni colpa, perfino che esista.
Intorno al ritratto di una generazione e di uno specifico ambiente professionale si intreccia – e da qui è possibile espanderlo ad altri contesti – il discorso sul confine tra spazio lavorativo e vita personale, un equilibrio fragile, che in certi contesti diventa più difficile da mantenere.
Ed è così che diventa impossibile quantificare il tempo del lavoro e quello dell’ozio, impossibile separare questi due aspetti che si intersecano e si confondono, e danno vita a gran parte dei discorsi che Gian e Greta fanno nelle loro giornate in città […]. (p. 38)
Ammetto di aver imparato negli anni a mettere paletti molto stabili tra vita professionale e vita privata, limiti che non vogliono vengano superati, raggiungendo un equilibrio non sempre perfetto ma che per me funziona. Ma è innegabile che in certi settori – e non più solo a livelli alti, ma nel lavoro “normale” e quotidiano – il confine spesso quasi non esista, vuoi perché si svolge un lavoro nato da una passione, vuoi perché si cade vittime dell’iper connessione, dell’esserci a tutti i costi, o chissà che altro. Greta e Gian lavorano e vivono insieme, realtà professionale e privata prive di confini stabili; ma è qualcosa con cui anche gli altri personaggi hanno familiarità, seppur in forme diverse, e che inquadra molto bene queste dinamiche.
C’è poi in Estate caldissima una chiave di lettura che va oltre il legame generazionale e lavorativo ed è quella dei legami: Dal Lago fotografa con precisione chirurgica i rapporti umani, li viviseziona e ce li restituisce nudi in un modo che ricorda molto da vicino la scrittura di Sally Rooney – per citare un’altra autrice tra l’altro accostata a una certa narrazione generazionale – ma anche, seppur in forme e mezzi espressivi differenti, Zerocalcare per quella frattura, la precarietà dei sentimenti. Di ognuno di questi personaggi, Dal Lago racconta le fragilità, le ansie, i fantasmi che si porta dietro, un bagaglio emotivo con cui fare i conti, in quella settimana in campagna, nella vita che verrà. E si innesca qui, a mio parere, la differenza narrativa tra quello che poteva essere un romanzo dalle buone premesse e poco più e quella che invece è una storia ben costruita, immaginata perché possa restare: ognuno di loro è lì, in quel momento, con un carico che non sempre è disposto a elaborare e l’happy ending non può esistere, non nel modo romanzesco che ci si potrebbe aspettare; non fa sconti, non consola, è un ritratto forse crudele ma sicuramente molto reale e vivido di vite complesse, rapporti precari, distanze, sogni infranti o che nemmeno ci azzardiamo ad ammettere.
Partiamo da fuori, dal rapporto con l’altro, che sia un compagno/a, che sia un rapporto professionale o di amicizia:
[…] e questo è il problema di leggere nei gesti degli altri quello che noi vogliamo leggere, e in definitiva questo è il problema di amare male, non mettere mai davvero a fuoco la persona che si ha davanti ma sovrascriverla perennemente con l’immagine che ci si è creati, incastrarla in un racconto senza vederla tridimensionalmente, come un’indagine viziata dai sospetti iniziali, una ricerca di indizi volta a confermare una tesi più che a perseguire una verità. (p. 99)
Proiettiamo l’idea che di quella persona abbiamo, il nostro desiderio, le nostre paure. Estate caldissima è, anche, una storia di distanze, di rapporti complicati dal vizio di non riuscire a comprendersi. E come possiamo comprendere gli altri se a malapena conosciamo noi stessi, sembra suggerirci? Ognuno di loro ha una storia diversa, un background che è solo suo, ognuno di loro porta avanti un’idea di sé stesso e della vita che immaginava, proiettando all’esterno l’immagine che di sé vuole dare, tacendosi aspetti con cui non è disposto a fare i conti.
Una cosa a cui non pensano mai: sono tutti, tra di loro, sconosciuti […]. Come possono illudersi di aprire uno spiraglio l’uno nella corazza dell’altro, se il loro corpo molle è precluso perfino a loro stessi? (p. 75)
E allora cosa si fa? Qualcuno ha il coraggio delle proprie scelte, qualcun altro si adagia in una vita della taglia sbagliata. Il narratore esterno – che mi viene da immaginare più che come una voce una macchina da presa che osserva dall’alto, per poi zoomare su ognuno di loro – ci mostra uno spiraglio di queste vite, ciò che è stato e li ha portati in quel lavoro, in quella casa, e qualcosa di quello che sarà della loro vita adulta, della loro vecchiaia, in un 2042 che arriva come la fine di un grande diluvio durato per anni, dopo tanta siccità.
Quella del clima, la siccità e poi il diluvio, è una metafora che mi ha molto affascinata e sulla quale mi interrogo: la prima, che corrisponde alla parte narrata “in presa diretta” del romanzo mi appare come il segno della grande crisi generazionale che stiamo attraversando, la fine del mondo come ce lo avevano presentato – l’università, il posto fisso, la famiglia, la casa, il capitalismo, in quest’ordine – e che ci si aspettava avremmo conquistato; la seconda, come il punto di rottura, da cui non si torna indietro, ma anzi da cui forse ripartire, dopo che la pioggia ha pulito ogni cosa, cancellato ogni traccia, le nuove generazioni quindi, che il mondo prima della crisi non lo rimpiangono perché non lo conoscono. O forse è più semplicemente monito diretto ai cambiamenti climatici che non possiamo più ignorare ma che allo stesso tempo è tardi per fermare perché ci siamo già immersi.
Mi soffermo ancora su un aspetto, marginale forse nella narrazione ai fini della trama, ma tutt’altro che secondario secondo me nelle intenzioni del testo e nelle mie di lettrice, un altro punto di contatto con i romanzi di Rooney: la questione di classe. Un argomento che sembrava scomparso dalla narrativa contemporanea e che invece mi pare urgente come in pochi altri momenti storici e le due autrici, in forme e modi diversi, intrecciano alla narrazione. Nel romanzo di Dal Lago è ben esemplificato dal personaggio di Carlo:
[…] ha messo a fuoco l’esatta ragione per cui aveva iniziato a giocare a padel – potersi illudere di appartenere anche lui a quel mondo, un mondo di suoi coetanei che accendono un mutuo per una casa in centro e chiamano loro figlio Gregorio e progettano di farlo studiare alla scuola americana, un mondo che lui può forse ambire a frequentare come turista, come ospite. (p. 15)
È il desiderio di inserirsi in un certo ambiente ma anche la consapevolezza che non riuscirà mai davvero a farne parte, un’ulteriore distanza tra aspirazioni e realtà, tra lui e gli altri. I soldi, l’ambiente sociale, tornano spesso in questa storia ed è curioso come oggi siano uno dei pochi tabù rimasti, il più assurdo. Gian e Greta al contrario di Carlo provengono da due famiglie agiate, una ricchezza che lui scopre da adolescente e attraverso lo sguardo degli altri su quella che per lui fino a quel momento era sempre stata semplicemente la propria vita, ma che da quel momento si rivela in modo diverso; le possibilità, l’agio della mancanza di preoccupazioni materiali, la certezza del futuro. Anche se poi non sarà così, generazione la sua maledetta dal non riuscire a rispondere a certe aspettative, a invertire la curva della crescita famigliare. Non come quella di suo padre, «quella generazione cuscinetto ancora in grado di fare da collante ai sogni e alle velleità sia dei propri figli che dei propri genitori». Il lavoro creativo stesso è il punto di osservazione ideale per riflettere su differenze di classe, possibilità, aspettative, da qualsiasi lato lo si osservi.
E qui si aprirebbe un’ulteriore pagina di riflessione, su come certi lavori siano diventati sempre più un privilegio – è assurdo, è la realtà – , sulle città che molti di noi abiteranno fino a quando non sarà più possibile sostenerne il costo, sulle aspettative che schiacciano. Sulla precarietà di una generazione, che non è solo economica ma anche sentimentale.
Ecco, grazie Gabriella Dal Lago, per questo romanzo che ci ha dato voce, per le innumerevoli riflessioni che la lettura ha fatto nascere e che non si esauriscono qui.
Debora Lambruschini