di Gian Marco Griffi
Laurana Editore, Maggio 2022
pp. 824
€ 20,90 (cartaceo)
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“Era bella Giustina, di quel genere di bellezza che posseggono soltanto i reietti che hanno provato ad essere felici. Tornando ad Asti guardò dal finestrino per cercare qualcosa che gli lasciasse la voglia di tenere gli occhi aperti, ma a quell’ora il cielo era pesante e scuro come il catrame appena steso e di bello non c’era niente, nemmeno un fiore, un contadino o un cane”. (p. 26)
Giustina è una degli scomparsi sulla tratta delle ferrovie, una giovane prostituta che si intratteneva coi tedeschi e che viene ritrovata morta, senza vestiti, sui binari. Una vittima di un’Italia che cerca di sopravvivere e si arrangia come può. L’Italia del 1944, ma non solo, che è divisa tra un presente di finta gloria, asservita ai tedeschi e ai loro capricci, come quello di scrivere una mappa delle Ferrovie del Messico, e che si riscopre piccolo paese in una guerra grande, che tutto fagocita e tutto calpesta.
È l’Italia di chi si deve arrangiare, di chi scrive di grandi sogni e progetta piccole fughe, complice la ferrovia, che lungo i suoi binari ne fa sparire molti, persi in qualche stazione o in mezzo ai campi, partiti da eroi e scomparsi da disertori. E mentre tutto scorre si pensa al barbiere o al mal di denti che si ha paura di curare.
Questo potrebbe essere un buon modo per descrivere questo libro. Ma c’è dell’altro: mancherebbero tanti pezzi di una storia, che tirata proprio all’osso risulta semplice. Nel febbraio del 1944, ad Asti, il soldato Cesco Magetti, protagonista principale della vicenda, dolorante per un mal di denti cronico, in servizio nella “Guardia nazionale repubblicana ferroviaria”, riceve dai suoi superiori uno strano incarico: disegnare una mappa delle linee ferroviarie del Messico. Nessuno sa perché al Terzo Reich questo sembri di vitale importanza, ma è un ordine e bisogna eseguirlo.
È nella ricerca disperata di tutto ciò che ne consegue che potremmo vedere una sorta di epica dell’effimero. Così pare quella che ci restituisce Griffi, che sembra quasi rievocare, come in una canzone di De Andrè, un piccolo mondo di gente che non ha fatto la Storia eppure la popola, la vive e la subisce. Ma non c’è nulla del tragico e della violenza della Storia che agisce su coloro che stanno al margine, c’è invece la potenza dell’ironia a salvarli (e salvarci) dall’ennesima epopea di disperazione borghese.
C’è un mondo che è a tratti irreale, come i balzi della trama nel futuro, accennati in parti piccole e quasi nascoste. C’è l’avventura, la ricerca ariostesca, la fuga dal tragico e dal progettato, c’è il bello della digressione che si sublima in una risata e non è il caso di citare qui i grandi nomi di altre letterature e i loro influssi su quest’opera, perché la verità è che quest’opera, dal registro linguistico particolare e camuffato, che si mostra semplice ma odora di complesso, è unica nel suo genere.
Non è la mole o l’estrazione sociale dello scrittore, a farla un’opera che si fa notare è l’idea di raccontare la Storia partendo dal futile, che è quello che tutti noi - comunque - viviamo nel presente, con nessuna pretesa di essere ricordati dai manuali ma consapevoli di vivere, giorno per giorno, guardando le cose da un punto di vista scomodo (è forse una ferrovia un punto di vista privilegiato?) ma comunque interno.
Siamo come dentro gli scompartimenti di un treno, ogni storia si intreccia all’altra, come fossero tutte in fila, quasi in un’idea di tempo alla Bergson; per questa ragione il tempo non esiste davvero, si può snocciolare, come grani di una collana, si può vedere per intero, può essere un tutto pieno (forse anche troppo, nella minuzia di ogni vita che viene prima accennata e poi subito dopo raccontata e svelata, nel capitolo seguente) o un tutto vuoto, come nella futilità della missione assegnata a Cesco. Di sicuro è raccontata davvero bene, per quella capacità di Griffi di portarci dentro le parole, di farcele masticare, gustare e non saziarci ancora.
Samantha Viva
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