di Megan Nolan
NN Editore, Giugno 2023
Negli ultimi tempi, da quando aveva smesso di credere che il suo mondo potesse cambiare in meglio e aveva deciso di accogliere la distrazione come unico sollievo possibile, aveva accettato quel vuoto come qualcosa di positivo (p. 11)
È il senso di vuoto, distruttivo e sempre in avanzamento, che abbraccia un thriller che in realtà ha tutto l'aspetto di essere un grande romanzo familiare. Un vuoto che intreccia la vita di personaggi che vivono sotto lo stesso tetto ma che sembrano escludersi l'uno dalla vita dell'altro, come la sfrontatezza di chi crede che rifugiarsi in qualsivoglia subordinazione, alla fine dei conti, possa essere salvifico e vantaggioso.
Piccole umane debolezze, pubblicato in Italia il 13 giugno e tradotto da Tiziana Lo Porto, è il secondo romanzo dell'autrice irlandese Megan Nolan, il cui esordio, Atti di sottomissione, aveva già incontrato il giudizio favorevole di critica e pubblico. L'autrice torna ancora una volta con una storia cruda e difficile, senz'altro dolorosa, di una famiglia anomala che fa della sofferenza un motivo di perdita e sconfitta.
Nella Londra degli anni '90, una bambina di tre anni, Mia Enright, viene trovata morta; si sospetta che Lucy Green, di dieci anni, sia stata vista per l'ultima volta con lei. La famiglia Green, selvaggia e disordinata è il capro espiatorio perfetto per un caso così grave, o almeno così pensa Tom Hargreaves, un giornalista corrotto in cerca di scoop. In realtà, i giorni dell'interrogatorio di Lucy puntano i riflettori sul passato dei membri della famiglia Green, che, dopo essere stati messi in guardia sulla pericolosità di restare in quartiere, si trasferiscono in un hotel vicino alla stazione a spese del giornale di Tom, che - guarda caso - è a loro completa disposizione. Lì possono avere cibo, abiti e soprattutto alcol, compagno fidato di molti dei protagonisti. È proprio l'alcol a permettere il viaggio dell'introspezione, l'unico mezzo con cui il giornalista riesce a ottenere delle informazioni, non tanto per palesare la colpevolezza di Lucy, ancora troppo giovane e immatura per concepire con intenzione un vero e proprio crimine, ma per rivelare una vita familiare devastata dalla solitudine e dall'incomprensione, tenuta a malapena in piedi da relazioni segrete, cupo risentimento, gravidanze nascoste. Una disillusione trasformata in aggressività col solo scopo di intrappolare l'intera famiglia.
In ogni pagina di questo romanzo, Megan Nolan interroga le vite della famiglia Green ed esplora i suoi semi del male, un male che tutti nel quartiere sostengono esista tra le mura della loro casa. Grazie a numerosi flashback e flash forward, la scrittrice ci immette in un viaggio verso le altrui debolezze, quelle stesse che rendono la vita semplicemente umana e giustamente imperfetta.
Inoltrandosi nelle disperazioni e nei fallimenti delle vite di Piccole umane debolezze è impossibile restare impassibili al racconto della gravidanza di Carmel, madre di Lucy, che sembra essere impenetrabile, anaffettiva e inabile a qualsiasi problema, una fuggitiva di emozioni, assassina del suo stesso ruolo di madre, dal cuore amputato e dal tempo troppo occupato in altro, e «si era semplicemente organizzata in modo da non doversi mai confrontarsi con quella realtà fatta di lei e Derek» (p. 116):
Le venne in mente, non per la prima volta nella sua vita, che l'unico metodo infallibile per ridimensionare un problema era solo sostituirlo con uno nuovo e più urgente [...]. A Carmel piaceva la gradevole sensazione dell'alcol che le bruciava nel petto. Adorava avere qualcosa da fare da sola, un impegno fisso. Le sembrava una cosa adulta ed eccitante, e confermava la sua più grande speranza, quella di avere una vita interiore consistente e significativa. A volte era difficile sentirsi così a casa. Non aveva privacy o quasi, suo padre entrava dovunque senza bussare quando si annoiava e si arrabbiava, o se c'era una lite o toccava a lei cucinare. A scuola non andava tanto meglio. Voleva bene alle sue amiche e a volte era rilassante sentirsi parte di un gruppo, ma ance con loro sembrava che ci fosse sempre un dramma o una colpa da attribuire su cui doveva prendere posizione. C'era poco tempo per scavare dentro di sé per trovare conferma all'impressione sempre più forte di essere una persona interessante (pp. 51, 69-70).
Il fratello Richie non è da meno, rinchiuso nelle sue dipendenze e nella sua immobilità alla vita, schiavo dell'alcol e di continui vuoti di memoria che non gli permettono di esistere nel qui e ora con nessuna persona. Un ragazzo solo, in gabbia con la solitudine, quella di un piccolo appartamento isolato privato di qualsiasi integrazione sociale. Per non parlare dei problemi di dipendenza affettiva di John, il padre di famiglia, un uomo privo di fondamenta ed empatia, perennemente in conflitto col prossimo, infelice e rassegnato a una vita che ha smesso di piacergli da tempo:
La sua infelicità era così vasta e indecifrabile che i bersagli erano spesso arbitrari, rendendo la sua sofferenza velenosa e ciclica. Lui stesso si accorgeva di quanto fosse assurdo urlare e sbraitare per una fetta di pane tostato bruciata o per una porta lasciata aperta, e tutto quello che voleva veramente era uno scontro degno della sua furia. (pp. 94-95)
A tutta la storia è perennemente attaccata la sensazione continua di un devastante crollo interiore, uno di quelli lenti, naturali, innegabili e assolutamente veritieri. Una malinconica saudade che riversa le sue fragilità in un ipnotico senso di decaduta rassegnazione. Quegli stessi crolli che si assicurano di lasciare le cose così, in uno stato di deturpamento e decomposizione, perché nulla cambia se nulla cambia davvero: non si può sentire la mancanza di qualcosa che non c'è mai stato.
Davvero, a chi importava di una famiglia come la loro? Le loro non erano che piccole umane debolezze, tragedie troppo ordinarie per essere degne di nota. (p. 113)
Serena Palmese
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