Negli ultimi anni il mondo del graphic novel e la sua ricezione da parte dei lettori sta subendo un grande cambiamento, raggiungendo un pubblico sempre più variegato. Nel mezzo di questa "rivoluzione" ci sono anche Teresa Radice e Stefano Turconi, rispettivamente sceneggiatrice e illustratore delle loro amatissime storie. In occasione dell'uscita del loro ultimo romanzo, Il Contastorie, edito da BAO, abbiamo fatto due chiacchiere con gli autori, per comprendere meglio ciò che c'è dentro il mondo di Pedro e Cent, la lunga collaborazione del duo, i mutamenti del mondo editoriale e molto altro.
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Partiamo dall’inizio: come è nata la vostra carriera di autori e come organizzate il lavoro a due? Se non sbaglio, avete iniziato a creare storie in coppia durante gli anni a «Topolino»…
La nostra collaborazione nasce proprio su «Topolino», dove noi ci siamo conosciuti, in modo anche piuttosto buffo: nel gennaio 2004 Disney Channel voleva fare una puntata dedicata a come nasce una storia a fumetti; nessuno di noi lavorava in redazione (gli autori lavorano ognuno a casa propria) e la redazione ha scelto uno sceneggiatore e un disegnatore da portare in redazione per partecipare al programma. Hanno selezionato proprio noi due tra i 200 collaboratori di «Topolino». Ci siamo piaciuti subito e in un secondo momento abbiamo iniziato a lavorare insieme, a partire dal progetto Pippo reporter, delle storie ambientate negli anni ’30, ed è stato uno dei rari casi in cui sono gli autori a proporre un progetto alla redazione. Abbiamo fatto quindici episodi insieme, quindi collaborando per diversi anni; nel frattempo abbiamo iniziato a lavorare su libri nostri. Il primo progetto uscito è stato Viola Giramondo (2003) inizialmente per Tunuè e ora nel catalogo BAO.
Non ho mai pensato che Viola fosse un libro per ragazzi, non penso mai a un target, io penso a scrivere la storia. Il nostro desiderio era di scrivere storie in generale, non che fossero considerate storie per ragazzi; il salto è stato con Il porto proibito che ci ha fatto conoscere come autori di storie anche per adulti. E con BAO è stato amore immediato e reciproco.
Il fatto di essere stati contattati come autori per proporre una storia. Questa modalità secondo voi è qualcosa legato alla forma o al mezzo di comunicazione?
Credo ci abbiano contattato perché iniziavamo a essere conosciuti per un certo tipo di storie (per ragazzi, avventurose) e in quel momento si stavano aprendo piccole finestre… anche BAO era nata da poco e il fumetto stava iniziando a essere sdoganato.
Negli ultimi anni, infatti, il fumetto ha iniziato ad avere un’evoluzione: i graphic novel esistevano già (basta pensare a Hugo Pratt) ma ora è diffuso ed è considerato un modo come un altro per raccontare una storia.
È davvero cambiato il mondo rispetto a quando abbiamo iniziato.
Quali pregiudizi ci sono ancora oggi sul graphic novel?
Ci sono ancora alcuni pregiudizi, ma è cambiata tantissimo la situazione, anche legata al fatto che ora il fumetto è disponibile in libreria, dandogli una valenza e una dignità letteraria pari a quella di altre forme di narrazione.
Anche il fatto che compaiono nei premi letterari è un bel riconoscimento da parte del mondo letterario. È una rivoluzione in corso e ci vorrà ancora del tempo, ma sta avvenendo.
Ogni vostro libro spalanca mondi: storie sempre diverse, accomunate dal tratto grafico e dalla grazia che vi contraddistingue ma sempre rinnovate, differenti per spunti, ambientazione, pubblico di riferimento. Da dove nasce l’ispirazione delle vostre storie?
Abbiamo la possibilità di raccontare le storie che ci stanno a cuore, andiamo a istinto, senza alcuna strategia. Sono volumi che occupano la nostra vita per due anni e mezzo (i tempi sono lunghi dall’idea a quando la sviluppi, la ricerca iconografica e della lettura per entrare nell’atmosfera, poi la fase della sceneggiatura, il disegno…). Di solito quindi tanti nostri libri nascono da un bisogno di parlare di un certo argomento che ci sta a cuore, verso un luogo che ci ha ispirato qualcosa, un personaggio o un’epoca, sono sempre delle emozioni che ci hanno toccato in prima persona. È fondamentale stare dentro una cosa di cui ci importa.
E come è andata per Il Contastorie?
Il Contastorie è una storia un po’ particolare: viene da prima che ci conoscessimo, è una storia che io (Teresa) avevo già scritto tutta tanti anni fa, per me era importante ma non era il momento giusto. Sono felicissima che finalmente abbia visto la luce e che sia uscito adesso, anche se la prima scena l’ho scritta nel 2000! Ricordo quando è arrivato il lockdown, mi sentivo bloccata, perché noi per le storie andiamo sempre fuori a cercare stimoli e in quel momento non potevamo; ho ripensato a questa storia, che per me era importantissima. Era arrivato il suo momento.
Di base è una storia sul potere delle storie e sul perché io scrivo storie. Anche il titolo sottolinea questa cosa.
Il Contastorie è un bellissimo romanzo di formazione che racconta in modo molto efficace quel momento di passaggio dall’infanzia alla pre adolescenza, la perdita dell’innocenza. Lo fa attraverso una storia di avventura e scoperta, prima che nel mondo dentro noi stessi.
È esattamente così. L’Amazzonia è stata un pretesto, è un viaggio che avevo fatto solo io a vent’anni, ma questa storia può essere ambientata ovunque, perché è soprattutto il viaggio dentro i personaggi, il viaggio interiore che loro fanno. Ed era il set perfetto per quello che loro stanno vivendo, utilizzando anche mezzi di trasporto lenti.
La natura, l’ambiente, sono parte integrante di questa e delle altre storie da voi create; non semplice sfondo su cui si muovono i protagonisti, ma parte fondamentale della storia. Ne Il Contastorie è prima il mondo del villaggio in cui vivono Pedro e i fratelli, la natura in cui sono immersi e che coincide con l’infanzia del protagonista, un mondo che pensa di conoscere perfettamente; poi si trasforma, si apre all’avventura, al pericolo, alla scoperta, e anche le tavole mutano (nelle scelte cromatiche, nei dettagli). Come funziona per voi l’ambientazione da un punto di vista narrativo?
La natura per noi è un vero e proprio personaggio. All’inizio è un mondo più colorato e benevolo, è quello dell’infanzia; poi piano piano inizia l’avventura e aumentano anche le scene notturne e cambiano i colori; poi c’è la città dove Pedro si smarrisce. Non ha nessun problema a muoversi nella foresta, ma è nella città che si perde. Il pericolo non viene dalla natura, non è cattiva verso chi la comprende, ma dal mondo che lui non conosce.
Il Contastorie, dicevamo, è anche un romanzo sul potere delle storie: quelle che Pedro legge con avidità e quelle che ascolta da Cent fantasticando sulle avventure del fratello e che danno titolo e ulteriore significato a ogni capitolo; quelle che lo accompagnano e gli danno forza per vivere la propria di avventura. Quelle più oscure e celate, che portate a galla con un tocco garbato e ai lettori lasciate intuire (la verità di Cent, per esempio). Storie che ci plasmano, uniscono o dividono.
Sì, assolutamente. I titoli dei capitoli sono anche un modo per raccontare che Pedro legge il mondo attraverso le storie. Cresciuto in un villaggio minuscolo, non si ritiene un tipo avventuroso, pensa di limitarsi a viverle nelle storie degli altri. Le usa come lenti per vedere il mondo e via via iniziano a esserci storie più complesse e adulte, fino all’ultima quella che si trova a dover scrivere lui. È un bambino di 11 anni e per comprendere quello che ha intorno cerca le storie, fino allo strappo in cui comincia a capire che forse per crescere bisogna scrivere la propria di storia, iniziare a tracciare il proprio cammino. La storia quindi non è salvifica ma è una mappa per uscire da certe situazioni, per esempio quella di Tiresia che lo aiuta a capire di non mollare, o Cent che gli racconta una storia dando un altro nome all’oggetto della faccenda che vuole fargli capire.
Questa storia ne contiene molte al suo interno, talvolta solo accennate ma tutte a loro modo importanti: se poteste sceglierne una, quale vi piacerebbe ampliare, approfondire?
Credo si percepisca [sorride, ndr]. Quella di Tiresia, che assomiglia a un personaggio del nostro graphic novel precedente La terra, il cielo, i corvi che non dice una parola ma è fondamentale, quel tipo di saggezza; è una guida, una sorta di maestro e come tale sta sullo sfondo perché Pedro possa camminare da solo. Da una parte avrei voluto approfondirlo di più, ma era anche giusto che restasse così, sullo sfondo, un maestro. Dall’altra parte c’è un personaggio che rappresenta il futuro, Maia, che è un fuoco d’artificio (infatti viene dal cielo), è la giovinezza, i sogni, la speranza. Ma non poteva avere più spazio perché lei è un accenno, è una proposta, poi bisogna vedere se Cent la accetterà.
[Stefano] Questo libro ha un finale che lascia a ogni lettore la possibilità di capire come andrà avanti.
Una cosa bella del fumetto è che anche per i personaggi ultra secondari io disegnatore posso creare una storia, conferirgli molti dettagli; devo sapere chi sia ogni personaggio, anche quelli secondari, pure se non serve a nulla, ma serve a me, devo avere chiaro ogni dettaglio. Se il personaggio si vede un pochino devi dargli delle caratteristiche. Quando penso al mio lavoro dico che mi sento un artigiano, non un artista. Perché secondo me un artista può permettersi di non essere capito, il fumettista invece deve raccontare storie e queste devono essere comprese; come l’artigiano che costruisce il tavolo che deve stare in piedi, l’artista può costruirne uno che invece non ha quell’uso, ecco io devo raccontare una storia tra parole e immagini che il pubblico comprenda.
Com'è mutato il vostro pubblico di lettori negli anni?
I lettori che incontriamo sono ultimamente molto vari, c’è un pubblico femminile molto forte, come anche molti adulti, un tempo invece erano solo ragazzi. Questo è molto bello perché uscendo da certi recinti e anche l’età dei lettori è mutata, oggi ci sono lettori di tutte le età. Abbiamo avuto una lettrice di 86 anni che a una presentazione de Il Porto proibito fece tantissime domande pertinenti.
Forse questo anche perché le nostre storie sono molto letterarie, nel senso che c’è molto scritto e si avvicinano al libro “tradizionale”.
A cosa state lavorando adesso, potete darci qualche anticipazione?
Stiamo lavorando al terzo volume de Le ragazze del Pillar che tornano l’anno prossimo, con due storie. Prima dell’estate 2024 probabilmente.
Intervista a cura di Debora Lambruschini.
Si ringraziano gli autori e la casa editrice Bao per la disponibilità - foto e tavole pubblicate su autorizzazione dell'editore