Passaggio a Nord Est: la filosofia del viaggio che vorrebbe l’eterna andata senza mai il ritorno (in Italia): "Dalla via Emilia a San Pietroburgo" di Tiziano Bisi

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Dalla via Emilia a San Pietroburgo
di Tiziano Bisi
Quodlibet edizioni, ottobre 2021

pp. 365

€ 18,00 (cartaceo)
€ 10,49 (eBook)

Non ci avevo mai pensato, ma è vero che avere tanti sogni è una maledizione! È come avere dentro un fuoco inesauribile che non si spegne mai, un famelico bisogno di esplorare senza sosta che divora le viscere, per cui avverato un sogno se ne accende un altro e questa necessità di leopardiana memoria ci rende irrequieti, instabili, proprio come il protagonista di questo libro.

Che, alla società degli umani, io non devo nulla, tranne una manciata di domicili in stati diversi. […] Che io sono un individualista! Che io sono un’anima solitaria. Un estraniato! Un nemico della massa! Che io sono affetto da egocentrismo. Paranoia. Asocialità! Che io non desidero beni terreni! Che io non mi interesso di armamenti nucleari. Né della politica della Federazione russa. Che io sono su questo pianeta, cosiddetto, Terra non per cambiarlo. Che io lo osservo e basta questo pianeta, cosiddetto, Terra. Che io sono dedito a una vita contemplativa. Che io sono, per così dire, un poeta della vita reale! Che io, come Dostoevskij «ho bisogno soltanto dei libri, della possibilità di scrivere e di restare per qualche ora al giorno da solo», che io viaggio per distrarmi da me stesso. (pp. 244-245)

Il passo, estratto dalla parte centrale del romanzo, può essere considerato la dichiarazione di poetica di Tiziano, protagonista dell’opera (alter ego dello scrittore? Chissà…), viaggiatore instancabile e inguaribile sognatore, un giovane irriverente, che ha fame di cieli e terre nuovi, divoratore di libri e di poesia, attento a quegli infimi dettagli che sfuggono ai più e che rendono unici i luoghi, le strade, i bar, le pensioni, quell’angolo di una certa piazza. Tiziano è un solitario, non si lega a nessun posto, né alla nativa Bologna né a nessun’altra città d’Italia, che disprezza e verso la quale scaglia qua e là tra le pagine delle martellanti invettive senza peli sulla lingua. Un vagabondo senza speranza, un disadattato, forse un pazzo (non a caso sulla copertina è raffigurato il matto dei tarocchi, un giovane uomo che va a zonzo con un fiore in mano e un fagotto legato ad un’asta poggiata sulla spalla), un matto che però conosce il russo alla perfezione, come se fosse la sua lingua madre. Un anarchico? Un sovversivo? Ma no! Tiziano vuole solo viaggiare ed essere lasciato libero di sognare, libero di spostarsi nell’Est Europa che ha prodotto la letteratura del suo cuore. A lui non interessano le complicazioni geopolitiche, le decisioni dei vertici russi sul nucleare, le cause di ciò che accade nel Donbass. Sono realtà con cui si scontra nel suo viaggio e ne riporta qualche aspetto, ma non trapelano giudizi o pregiudizi.

Tiziano non vuole seccature, lo ha detto lui: è un egocentrico. Agli egocentrici come lui bisogna dar retta certamente, soprattutto perché è un giovane cuore pieno di sogni, senza volgarità alcuna, però occorre anche prendere i suoi sproloqui con una certa intelligente dose di ironia e di leggerezza. E il lettore viaggerà con lui. Bastano le cinture di sicurezza dei bus, poche cose in uno zainetto in spalla e via.

Lo zaino è quasi pronto. Ci infilo dentro tre paia di mutande, tre camicie, tre maglioni, Le notti bianche di Dostoevskij, un ritratto di Rasputin. Una giacca per le serate con Nasten’ka. (p. 19)

Per dare un taglio alla monotonia della vita impiegatizia dell’Italietta, che svuota l’anima e il cervello, che istupidisce le menti fertili dei giovani e non solo, non c’è niente di meglio che mettersi sui mezzi che un turista non prenderebbe mai per andare in certi posti lontani: le agenzie viaggi e le riviste turistiche patinate spingono sempre verso gli stessi posti, usando gli stessi mezzi. Il turismo organizzato è la morte del vero viaggio. 

Io, questi turisti italiani a San Pietroburgo, li osservo in estate quando se ne vengono a falcate larghe, a sfinirsi per i prospekt. Ne sono certo, non vengono per vedere la città così com’è, bensì per avere una conferma di quello che ripetono gli inserti in carta pregevole dei rotocalchi, gli imbonitori delle agenzie di viaggio, i refrain sempre gli stessi dei tour operator europei. I turisti italiani vengono per consumare San Pietroburgo, e lo fanno con la stessa indifferenza con la quale consumano Roma, Venezia, la Fift Avenue, il Beauburg, Van Gogh, la loro stessa vita. (p. 116)

Invece il nostro giovane vagabondo viaggia senza organizzazione, con il solo scopo di andare «non importa dove! Non importa dove! scriveva Baudelaire. Ovunque vi sia un altrove in cui sognare di perdermi, là io mi sento a casa» (p. 176), e con questo mantra attraversiamo con lui diverse città dell’Europa orientale prendendo un bus a Bologna diretto a San Pietroburgo passando per Varsavia insieme alle badanti polacche. Faremo conoscenza di diversi personaggi curiosi, tra cui alcuni italiani  - non propriamente onesti ed affidabili per la verità - e vedremo attraverso gli occhi incantati di Tiziano il succedersi di paesaggi diversi dalla Polonia al mare ghiacciato di Murmansk dove il cielo è quasi sempre dello stesso colore, cioè grigio.

Per chilometri e chilometri si susseguono paesaggi minuscoli dai nomi intercambiabili. Attraversiamo Nové, Mesto, Náchod, Kudowa-Zdrój ed è già Polonia. Eppure, io neanche me ne accorgo di aver superato un confine che del resto non esiste più, e poi è tutto talmente identico, tale e quale, sia di qua che di là. Stesso universo torbido di pianure, boschetti, tetti spioventi, granai abbandonati. Tutto è freddo, muto, come dismesso, dimenticato.

A Riga, in Lettonia, sul Mar Baltico, Tiziano scopre che i lettoni sono  la minoranza della popolazione, perché «quarantanove percento noi, cinquantuno percento i russi» (p. 49) gli spiegano e infatti in quella repubblica baltica si ha come l’impressione di essere in Russia, e la lingua russa campeggia dai negozi alle stazioni dei treni: «Del resto, questa fu a lungo una proprietà dello zar e dal 1891 al 1918 il russo era la lingua ufficiale» (p.49). La Lettonia è stato un paese martoriato, prima dai nazisti e poi dai comunisti, e gli ebrei del posto pagarono il prezzo più alto. 
In ogni stato che attraversa, le persone che incontra si meravigliano del suo desiderio di viaggiare in luoghi tanto impervi, soprattutto se paragonati all’Italia, che dai russi e non solo è considerata una sorta di paradiso in terra. E lui, Tiziano, coglie ogni occasione buona a fare rampogne all’Italia e agli italiani:
Io cerco di spiegarglielo alle mie studentesse. […] io cerco di spiegarlo a loro che frequentano le mie lezioni alla FilFak, la Facoltà di filologia dell’Università Statale di San Pietroburgo. Io cerco di spiegarglielo che razza di scompanzè, che razza di oranghi siamo noialtri, gli italici. Mai avuto un senso nazionale gli italiani. Tutti quanti perennemente a flettersi, a ginocchioni, a capo chino, in pose umilianti! I leccapiedi! A baciare le terga di imperatori, papi, cardinali, preti, assessori comunali, camorristi, il Dux prima, gli americani poi. (p. 100)
(E come dargli torto?! Ma andiamo avanti!)
La meraviglia del libro è però la godibilità della scrittura e la peculiarità del personaggio, che, pur col suo snobismo, le sue tirate contro gli italiani che sono vivi ma sembrano già morti anzitempo, cattura la simpatia del lettore: Tiziano è un giovane con la letteratura che gli scorre nelle vene, con gli occhi popolati di sogni e di amori di belle ragazze russe dolci e accondiscendenti che si susseguono di città in città. Studentesse, bariste, dottoresse in ospedale, tutte che portano un pezzetto della Nasten’ka de Le notti bianche. Un esaltato, un po’ svitato a volte, che si meraviglia di trovare nell’Est Europa ristoranti che nel nome richiamano la canzone Felicità o direttamente Al Bano Carrisi, osannato tutt’oggi dai russi e dai russofoni. Le pagine sono disseminate di richiami ai nostri più grandi poeti, come Ungaretti, i cui versi sono universali e ricordano al protagonista che situazioni ed emozioni sono valevoli per ogni uomo e di ogni epoca storica.

La parte più coinvolgente del libro è sicuramente quella in cui Tiziano è a San Pietroburgo, una città che non sembra russa, una città dallo spirito europeo: la città della poetessa Anna Achmatova, di Puškin, di Dostoevskij: «Non si può capire San Pietroburgo se non se ne intendono quei segni del dolore che sono dappertutto». (p. 137) 
Non mancano neppure le invettive contro gli oligarchi e la società contemporanea dei social network, disgrazia sociale:
In ogni caso, le persone non lo capiscono come questi psicoteleschermi abbiano un effetto devastante sull’essere, cosiddetto, umano e come questi psicoteleschermi ammarciscano l’essere, cosiddetto, umano e come questi psicoteleschermi trasformino l’essere, cosiddetto, umano in un essere del tutto insincero e disgustoso! (p. 220)
Tra un vicolo e l’altro, a zonzo insieme a Tiziano, leggeremo di avventure galanti, riflessioni sulle varie realtà che l’autore, Tiziano Bisi conosce molto bene, vivendo buona parte dell’anno proprio a San Pietroburgo. Arriveremo fino a Teriberka, nell’oblast di Murmansk sul mare di Barents, visitata dai turisti per le sue meravigliose aurore boreali e per essere una sorta di «cimitero delle barche» (p. 267), ricettacolo di pescherecci, rottami, fabbriche dismesse, residuato dell’industria ittica sovietica prima della caduta dell’exURSS.

La Russia: una federazione immensa, una fucina culturale, crocevia di popoli e nazioni, con città come San Pietroburgo dove la bellezza è palpabile, ma i russi non se ne rendono conto. Un luogo che vagheggia l’Italia e che ama il «naš Prezident» (p. 84), «il nostro Presidente», Putin. Una realtà piena di contraddizioni, che conosce il dolore, il senso di abbandono e la depressione sociale di chi vive nel profondo e ghiacciato Nord: «Eto Rossija» (p. 146), questa è la Russia.

Marianna Inserra