Quando la prigione è dentro te: "Un'isola" di Karen Jennings


Un'isola
di Karen Jennings
Fazi editore, luglio 2023

Traduzione di Monica Pareschi 

pp. 192
€18 (cartaceo)
€9,99 (ebook)


Succede qualcosa di inaspettato leggendo Un’isola di Karen Jennings. Si incontra in apertura un protagonista che sembra meritare, se non rispetto, quantomeno compassione. Guardiano del faro su un’isola al largo della costa africana, Samuel vive solo in mezzo alla natura brulla e agli animali, in condizioni igieniche precarie, e tocca a lui dare una sepoltura fortuita a quei corpi di migranti che ogni tanto le onde scaricano sulla spiaggia. Samuel li raccoglie, quei corpi che non è riuscito a guidare in un porto sicuro con la luce del suo faro, e li copre di sassi perché la terra è troppo dura per essere scavata. Samuel di primo acchito al lettore sembra quasi un uomo giusto. Non lo è, quasi mai. Questa scoperta la si fa presto, nella lettura, eppure in qualche modo resta difficile da accettare, si fa resistenza fino alla fine. 

Questo è uno dei punti di forza della scrittura di Jennings, che è in grado di problematizzare l’instabilità politica e sociale interna a tanta parte dell’Africa servendosi di un personaggio che non è paladino di niente se non di sé stesso e che pure oscilla, attratto a volte verso un Bene che porta però con sé poco benessere. Samuel viene dalla povertà assoluta: mentre il suo paese lotta per l’indipendenza dai colonizzatori per poi scivolare nella presa di ferro di un dittatore applaudito dallo sconforto generale, Samuel e la sua famiglia conoscono l’elemosina, la sofferenza, il vedersi portare via tutto. Suo padre resterà sempre dalla parte della giustizia e della difesa della libertà; Samuel, dalla parte delle proprie esigenze, soddisfatte ora da una fazione, ora dall’altra. 

Quando, anni dopo, sulla spiaggia dell’isola dove si è ritirato il mare sputa un uomo vivo, Samuel non sa che fare, e soprattutto cosa provare. Il timore di una nuova espropriazione dal proprio territorio, il vecchio odio per etnie diverse e il desiderio umano di compagnia e conforto fanno a pugni nel suo animo, mentre il nuovo arrivato si fa largo pacificamente nella sua vita. 
L’isola. L’isola. L’isola apparteneva a Samuel. Era sua, soltanto sua. era lui quello che aveva sentito il sapore della terra nella baracca, era lui quello che aveva plasmato, domato, edificato quel luogo facendone quello che era. Non se lo sarebbe fatto portare via: era arrivato il momento di affrontare l’uomo. (p. 172) 
Questo profugo arrivato dal mare, senza pretese se non un po’ di cibo e acqua e senza voce, visto che il suo linguaggio è incomprensibile per Samuel, solleva i ricordi di una vita faticosa e delle molte persone perse. I flashback si palesano alla mente del protagonista quasi dolorosamente, la memoria non dà conforto ma rinvigorisce emozioni sopite. Nel libro la storia di un paese africano si intreccia con le avventure di un uomo del popolo, e viste dall’interno le corruzioni interne e le persecuzioni razziali sono più nitide, forse, ma quanto mai ingiustificabili. 
«Io non ero nient’altro che un membro della mia tribù», diceva. «Poi, nel 1934, ci hanno detto che apparteniamo tutti quanti – tutta la regione, capisci – alla stessa tribù, e ci hanno dato lo stesso nome. È brava gente, gente come si deve. Non c’è odio tra noi, ma loro non sono la mia tribù». (p. 56) 
Non è giustificabile l’ascesa di un dittatore, acclamato da un popolo disperato che si è fatto traviare da discorsi enfatici, ma forse nel romanzo sono più comprensibili le ragioni del malessere di tanti popoli africani usciti dolorosamente dall’esperienza di sopruso colonialista. 
L’indipendenza non aveva certo portato tutto quello che era stato promesso. Anzi, in molti si lamentavano di avere meno di prima, adesso. «Va benissimo avere il diritto di voto», dicevano, «ma come la mettiamo se non abbiamo da mangiare?». (p. 120) 
Il libro è diviso in quattro giorni sull’isola, ma copre uno spazio di tempo molto più lungo, una vita umana intera e forse più di una. Così, il suo merito è duplice. Da un lato permette di svincolarci dalla lettura occidentale del colonialismo in Africa, evitando di appiattire decine di paesi dagli usi, costumi, religioni ed economie diverse sotto un’unica bandiera pallida e stereotipata. Dall’altro, invita a una riflessione sull’agire dell’uomo in società che va al di là di qualsiasi confine nazionale o circostanza storica. Cosa farei, io, se mi trovassi a lottare per la sopravvivenza quotidiana, lontano da qualsiasi istruzione ed educazione politica? Sarei in grado di scegliere sempre il Giusto, di lottare per un fine più alto accettando anche di sacrificare la mia vita? C’è un Bene in ogni situazione? E se sì, sarei disposto a trovarlo? Non sempre la risposta è immediata, e il lettore lo scopre a fatica, in Un’isola, con disgusto spesso. Un finale a sorpresa ribalta forse qualche conclusione che poteva esser stata fatta. Tuttavia, anche di fronte all’orrore, al lettore resta la grande ammirazione per la sottigliezza della penna di Jennings che non tace di fronte a niente: soprattutto non accetta che la sfortuna toccata nella vita di un uomo sia sufficiente a difenderlo, a dirlo buono.

Michela La Grotteria