La vita felice
di Elena Varvello
Einaudi, 2016
pp. 190
€ 18,50 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Fu questo quello che fece lei, quella volta: mi riportò al sicuro, vegliando su di me fino al mattino, fin quando mio padre – l’uomo che non avrebbe mai smesso di amare – uscì. E poi mi allontanò, mentre le fiamme si alzavano invisibili, mentre la casa si riduceva in cenere. (p. 118)
C’è un filo rosso che lega saldamente Solo un ragazzo e La vita felice, due romanzi bellissimi e brutali di Elena Varvello, tra le voci più interessanti della letteratura italiana contemporanea. Ci sono temi e spunti che si rincorrono, c’è un cuore nero al centro della narrazione, segreti e silenzi; ci sono due famiglie che fanno i conti con il male che non irrompe dall’esterno ma è esattamente lì, al centro.
Dialogano tra loro queste storie e non perché ci sono punti di contatto fra le trame, non solo, non è quello il punto secondo me: sono legati da una voce potente, quella di Varvello, che scortica e graffia la pagina, e dalle domande che ne costituiscono il centro nevralgico. Fino a che punto conosciamo le persone che amiamo? E questo amore, fin dove può arrivare?
È l’estate del 1978, è «solo una sera come un’altra. Una famiglia come un’altra», quando tutto va in pezzi.
Nell’agosto del 1978, l’estate in cui incontrai Anna Trabuio, mio padre portò nei boschi una ragazza. (incipit, p. 3)
Trent’anni dopo, Elia è un uomo adulto e torna indietro a quell’estate della sua adolescenza, alle ombre che si sono fatte strada sulla sua famiglia, ai segreti a lungo custoditi. Ai fantasmi. A suo padre, che in fondo se n’era andato già molto tempo prima che ogni cosa si infrangesse. Nei suoi ricordi c’è stato un momento esatto in cui l’equilibrio sul quale aveva creduto le loro vite si reggessero aveva smesso di esistere e dapprima piccoli poi sempre più preoccupanti segni di squilibrio hanno sostituito l’immagine del padre che conosceva con quella di quest’uomo dalla mente annebbiata, le teorie di complotto, i comportamenti sempre più strani. Gli scatti. I segreti. La discesa nell'abisso.
Varvello racconta questa storia dalla fine, da quello che crediamo di intuire sia il suo epilogo. Ma è Elia a portarci a ritroso nel tempo, alle cose che succedono quell’estate e che non capisce, ai sentimenti che si fanno strada nell’adolescenza, ai silenzi, alle colpe. La scrittura è perfetta, secca, durissima. È uno scavo tra le pieghe più oscure dell’animo umano, nei segreti che custodiamo, nell’amore e nella colpa.
Durante quell’estate ciascuno di noi tre tenne per sé qualcosa, i suoi segreti – ciò che mi aveva detto Anna. Mia madre sperava che bastasse e si tappò la bocca, fin quando fu possibile. Non posso fargliene una colpa. (p. 35)
Forse Ettore ha rapito la ragazza. Forse è colpevole anche del brutale omicidio di un bambino, il corpo ritrovato pochi mesi prima. Forse anche nel suo passato si nasconde un segreto violento. Il dubbio si insinua nella vita di Elia, cambia per sempre l’idea che ha di suo padre, della sua famiglia. Ed è qui che si posa lo sguardo di Varvello, nello strappo che c’è stato. Elia che non capisce più gli adulti intorno a lui e trova rifugio in altre solitudini simili alla sua, scopre l’amicizia, il sesso, ma sono altri segreti, altro dolore.
Fu in questo modo che diventammo amici, quell’estate: tra tutti quei silenzi, quel che non riuscivamo a dire e che non capivamo. (p. 43)
Mentre il mondo degli adulti implode, Elia si avvicina a Stefano, appena arrivato in paese insieme alla madre, che proprio lì era cresciuta per fuggirne qualche anno prima. E, come gli altri, porta con sé il suo carico di segreti, antichi legami, verità nascoste. L’amicizia tra Elia e Stefano è quella dei ragazzi che non hanno le parole, è nei pomeriggi pigri a esplorare i dintorni, mezze frasi per aprire uno spiraglio l’uno nella solitudine dell’altro. Ma è la madre, Anna, ad ammaliare Elia, le cose che custodisce, la scoperta del desiderio. Anche lei, anche loro, una famiglia con il proprio carico di silenzi e colpe, di cui intuiamo solo i contorni. Gli spazi bianchi della narrazione sono anche in questo caso dosati con maestria, hanno l’eco del racconto, indizi che ci ritroviamo a inseguire. Per poi tornare lì, al centro della narrazione, alla frattura nella famiglia di Elia e a quello che resta.
È la madre, a mio avviso, il personaggio più complesso, stratificato, affascinante: continua ad amare Ettore, un sentimento che non vacillerà mai, l’unica vita e ruolo che conosce. Che cosa sa? Che cosa può perdonare?
A che stava pensando, in quel momento? I suoi segreti e tutte le speranze e le paure, il posto in cui l’amore la teneva: mia madre era una donna complicata, sebbene allora avessi l’impressione che fosse piatta e trasparente. Quello che so di noi, di quel che ci è accaduto, è chiuso in quella scena: le braccia spalancate, nessuno che lei possa stringere o afferrare, l’unica cosa di cui fosse capace, e io che mi allontano. (p. 57)
È lo scostamento tra quello che vediamo delle persone che amiamo e quello sono, quello che celano, ed è tra queste pieghe che la storia si apre ad altri spunti. La madre di Elia che si aggrappa all’amore che conosce, sposta lo sguardo altrove per non vedere le crepe. È la moglie che finge di non sapere, è la madre che giustifica, questo almeno è quello che di lei ci viene raccontato da Elia, fino a un certo punto. Sarà Elia adulto a restituire profondità a quella «donna complicata». Mi interrogo spesso sull’immagine che noi figli abbiamo delle nostre madri, su come spesso si riducano per noi solo a questo, madri. Escludiamo il resto, neghiamo possano essere altro se non quello che sono per noi. In quello spiraglio che Varvello insinua c’è tutta questa complessità, ci sono altri interrogativi su cui confrontarci. C’è la vita, c’è la letteratura, e quel legame che talvolta si crea dall’una all’altra.
Varvello costruisce un romanzo di formazione e conflitto generazionale, una storia di solitudini e fantasmi, in cui al centro del caos sembra gridare forte una domanda: è possibile diventare adulti, essere felici, dopo uno strappo così violento? La vita felice, «la vita che ci resta».
Debora Lambruschini
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