di Jean Stafford
Adelphi, giugno 2023
Traduzione di Monica Pareschi
pp. 221
€ 19 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)
Il rapporto con l’ambiente circostante, la perdita dell’innocenza, la caccia come simbolo e ossessione, l’Ovest: sono alcuni dei capisaldi di una certa narrativa nordamericana che immediatamente fanno pensare ad autori quali Ernest Hemingway, Mark Twain, John Steinbeck ma anche Flannery O’Connor, Shirley Jackson, Eudora Welty, solo per citarne alcuni. E sono gli elementi cardine di questo romanzo del 1947 appena pubblicato per la prima volta in italiano da Adelphi: Il puma, della scrittrice premio Pulitzer Jean Stafford e tradotto magistralmente da Monica Pareschi, è un romanzo così intrinsecamente americano e di stampo classico da superare egregiamente la prova del tempo e arrivare a noi lettori contemporanei con tutta la sua potenza.
Autrice di romanzi, moltissimi racconti, storie per l’infanzia, articoli apparsi su rivista, il nome di Stafford è forse finora poco noto al pubblico nostrano: la prima traduzione delle sue opere è del 2011 (i racconti Il castello interiore, BUR, traduzione di Chiara Gabutti), cui ha fatto seguito lo scorso anno la prima edizione italiana di Elephi (Adelphi, traduzione di Livia Signorini) una divertente storia per ragazzi, e solo adesso questo romanzo bellissimo e crudele, Il puma. Ci auguriamo che da qui possa nascere un progetto di recupero bibliografico dell’opera di Stafford, tra le voci più interessanti del panorama statunitense di metà Novecento e ingiustamente trascurata da questa parte dell’oceano. Autrice poliedrica, è nel racconto che Stafford trova la sua dimensione ideale e proprio con questa forma vinse nel ’70 il Pulitzer per la narrativa (con la raccolta The collected stories); Il puma è il suo secondo romanzo, dopo il successo dell’esordio nel ’44 con Boston Adventure e segna un momento fondamentale nella sua produzione letteraria.
Romanzo di formazione e di perdita, è una storia che si poggia saldamente sulla tradizione letteraria che l’ha preceduta, la reinventa e funge anche da modello per alcuni tratti che saranno poi dei personaggi dei romanzi di Shirley Jackson per esempio, con quel particolare modo di rappresentare l’infanzia mai davvero innocente, le ambiguità, le solitudini.
Un dualismo di fondo attraversa la narrazione: è nel rapporto tra i due fratelli protagonisti, Molly e Ralph, nella contrapposizione infanzia/età adulta come negli ambienti che li rappresentano, nei luoghi e nelle aspirazioni verso cui i personaggi tendono ben esemplificate dai due rami famigliari integrati in altrettanti ben distinti contesti sociali. Ed è un romanzo, si diceva, permeato di molti elementi che riconosciamo come caratteristici di una certa narrativa statunitense tra Otto e Novecento: questi stessi dualismi di cui sopra, la fascinazione per l’Ovest, l’ossessione per la caccia che diviene metafora di qualcos’altro, il mondo virile e adulto contrapposto sempre più all’infanzia e i suoi miti, l’avventura, la fine dell’innocenza.
Stafford intreccia tutto questo mediante una prosa che fa uso di punti di vista diversi (Ralph, Molly, il narratore) per avvicinarci ora all’uno ora all’altro e al mondo che rappresentano, o per osservare dalla dovuta distanza e oggettività; è una narrazione attenta, misurata, intervallata di dialoghi spiazzanti, da cui oggi appare evidente la premura con cui Pareschi ha affrontato un testo complesso, polifonico, pieno di insidie (alcune letterarie, altre legate al momento storico in cui il romanzo è nato e si colloca).
Gli spunti di riflessione, le tematiche, i rimandi sono molteplici, ma il cuore nevralgico della narrazione da cui si irradia tutto il resto sono Ralph e Molly, fratello e sorella che vivono l’infanzia in quasi simbiosi: rimasti deboli dopo la scarlattina, malaticci e soggetti a copiose epistassi sincronizzate. Per molto tempo vivono un rapporto strettissimo, alleati contro l’ottusità degli adulti, a partire dalla famiglia stessa, la madre, le due sorelle maggiori, il mito del nonno materno scomparso molti anni prima e che non hanno mai conosciuto, gli adulti che gravitano intorno alla loro casa nei sobborghi di Los Angeles: tutti loro rappresentano esattamente quel mondo che detestano, ipocrita e falso, da cui tentano di ripararsi il più a lungo possibile. Alleati, l’infanzia contro l’età adulta e le sue ipocrisie.
Ma c’è un altro mondo per loro, un modo differente di vivere, muoversi e parlare, ed è quello rappresentato da nonno Kenyon, il patrigno della madre, che una volta all’anno da uno dei suoi ranch viene in visita a casa loro, portando ai ragazzi doni curiosi e storie. Di viaggi, dell’Ovest (perché come dice lui la California non può esserlo considerata, quello vero è cosa altra), di alternative al quotidiano conosciuto. E di ignoto.
In seguito Ralph ebbe l’impressione di aver avuto, nel corso di quel lungo pomeriggio, un vago presentimento di ciò che sarebbe successo dopo l’arrivo del nonno, ma probabilmente non era vero: era solo il desiderio a fargli apparire così particolari e piene di significato quelle ore, anche se in realtà erano state normalissime. (p. 38)
Quando l’ultima visita del nonno si interrompe irrompe sulla scena lo zio Claude, il fratellastro della madre, e porta con sé nuove possibilità, un ignoto che li attrae e respinge in egual misura. Claude, come il padre aveva iniziato a fare, mostra loro un’alternativa alle chiacchiere da salotto, ai ruoli e alle aspettative famigliari, ai discorsi tediosi di personaggi pieni di boria. E il loro mondo si divide nettamente in due:
Allora decise che il mondo era costituito da due gruppi di persone. Il primo, gli «uomini Kenyon», includeva quelli che, come lo zio Claude, conoscevano le abitudini degli animali, si assoggettavano al dominio delle stagioni e, con l’età, non diventavano né grassi e calvi come il nonno Bonney, né ossuti e bitorzoluti come il reverendo Follansbee. (p. 113)
Il mondo di Claude affascina i due bambini e Ralph soprattutto che lentamente resta ammaliato dalla presenza virile dello zio, da tutto ciò che rappresenta, la promessa dell’età adulta verso cui è sempre più attratto. Ed è lì che qualcosa tra lui e Molly inizia a spezzarsi: se Ralph si prepara a lasciare l’infanzia, la sorella dal canto suo vivrà uno stato di perenne rifiuto per l’età adulta, ancorata saldamente agli assoluti e ai giudizi che un tempo la legavano a Ralph e da cui sempre più, inesorabilmente, si allontana. Uno strappo evidente quando sono al ranch, dove lo zio ha preso accordi perché trascorrano ogni anno le vacanze estive, ma che si ricuce nei lunghi mesi invernali a casa in California, nuovamente uniti contro il mondo degli adulti rappresentato dalla madre e dalle sorelle.
Le loro vite erano come quelle dei figli di divorziati, che trascorrono una stagione col padre e il resto del tempo con la madre, e per questo si sentono spaccati in due e qualche volta si scoprono confusi, non ricordano quali sono i libri che hanno letto, le idee che hanno maturato, i suoni e le forme che hanno percepito in una casa e nell’altra. Allo stesso modo, il rapporto tra loro era duplice. Al ranch quasi si ignoravano, ma a Covina, soli con la madre ora che Leah e Rachel erano in collegio, erano ancora legatissimi. (p. 114)
«Spaccati in due», per il tempo diviso tra California e Colorado, ma anche per quella simbiosi tra loro che sta andando sempre più scemando, l’infanzia e la fine dell’innocenza. Al ranch Ralph entra nel mondo dello zio Claude, nei riti di una virilità che non conosceva e ne resta ammaliato. Il tempo trascorso con lo zio si trasforma presto nella promessa di una vita ben lontana da quella che la madre aveva immaginato per lui, per loro, scopre la terra, l’allevamento del bestiame, gli spazi selvaggi, i rituali maschili. Molly si ritrae invece sempre di più nell’infanzia, nelle stanze, nel rifugio della scrittura. E il rapporto tra loro si spezza, irrimediabilmente, durante uno dei viaggi in treno verso il ranch. Niente, dopo, sarà più lo stesso. È la fine dell’innocenza, l’abbandono di un’età che non potrà essere mai più e in questo strappo c'è sottinteso molto più di quello che appare effettivamente sulla pagina.
Perdere Molly e la loro simbiosi significa andare verso l’ignoto, abbandonare ciò che conoscono, abbandonare l’infanzia: Pensava a lei come se fosse l’ultimo appiglio al di sotto del quale il mondo precipitava in un abisso […] (p. 154)
Al ranch lo zio mette a conoscenza Ralph della sua personale ossessione: la caccia alla femmina di puma che ha avvistato e che diviene un’ossessione appunto per entrambi. Non è un caso che sia proprio una femmina: le implicazioni e i simboli che possiamo leggervi sono numerosi come i rimandi a una tradizione letteraria il cui archetipo per eccellenza è rappresentato dalla balena bianca di Melville, ma che passa anche per il gigantesco marlin de Il vecchio e il mare di Hemingway e innumerevoli altri esempi che arrivano fino alla letteratura più contemporanea, in cui la caccia e l’ossessione per la preda sono un simbolo e un tema più o meno centrale nella narrazione. Il puma che Claude smania di catturare è sfuggente e anche sulla pagina compare solo brevemente, ma ha un ruolo cruciale nella storia, fino al suo inatteso e tragico epilogo che qui ovviamente non rivelerò per non rovinare il piacere della lettura ma che confesso ha continuato a ronzarmi in testa a lungo.
L’animale e l’ossessione che lega Ralph e Claude mette un’ulteriore distanza tra il ragazzo e Molly, tra la loro infanzia e l’età adulta.
Il personaggio di Molly è complesso, ammaliante e, come si accennava in apertura, anticipa molti dei tratti che possiamo riscontrare in alcuni personaggi femminili di Shirley Jackson, a partire dalla piccola protagonista di Abbiamo sempre vissuto nel castello, Merricat Blackwood: l’ambiguità, il mondo dell’infanzia contrapposto a quello degli adulti e un’infanzia che si è disposti a tutto per non abbandonare. Se di Ralph seguiamo i passi verso l’età adulta, l’attrazione per i rituali virili dello zio Claude e della sua cerchia, l’avventurarsi nel mondo esterno, quello di Molly è un racconto sotterraneo, potente, bellissimo e crudele come lo è questo romanzo stesso. Ed è lei la gemma più preziosa di questa storia, almeno per me.
Rimasero tutti interdetti. Le profondità di quella ragazzina erano insondabili e la signora Fawcett a volte aveva davvero paura di lei. (p. 122)
Non sono solo l’intelligenza e la lingua tagliente a spaventare la madre di Molly, anche se è questo che esplicitamente ci viene detto; sono, piuttosto, quelle profondità impossibili da sondare, il rapporto ambiguo col fratello (che mi ha ricordato, fino allo strappo, un’altra storia di simili ambiguità, la Casa occupata di Cortàzar o, sempre dell’autore argentino, E si distese accanto a te), l’oscurità di cui è capace.
Le profondità di Molly sono le stesse di un romanzo ben più stratificato di quanto potrebbe apparire, in cui si intrecciano spunti, temi, occorrenze e la cui lettura potenzialmente si apre a molte considerazioni su rimandi e topoi letterari, a partire da quelli qui presi in considerazione; ma Il puma è anche l’occasione per riflettere sulla traduzione e il rispetto di un testo che fotografa un dato momento storico e sociale con tutto ciò che questo comporta, con un certo modo di fare mestiere e calarsi nel testo restituendolo al lettore in tutto il suo potenziale senza cedere alla tentazione di accorciare la distanza temporale che lo caratterizza. Ed è, ancora, lo spunto per guardare alla vastità della produzione letteraria nordamericana tra Otto e Novecento di cui da qui percepiamo spesso solo una piccola parte e in maggioranza composta di nomi maschili; Jean Stafford in questo romanzo costruisce una storia potente che si colloca a pieno titolo in una certa tradizione letteraria popolata per lo più da quei nomi di cui sopra, per ribadire ancora una volta che l’unica distinzione sensata è tra buona e cattiva letteratura.
Ad Adelphi adesso il mio appello accorato perché prosegua – auspicabilmente attraverso la voce di Pareschi – nella riscoperta e pubblicazione di Jean Stafford, una gemma rara.
Debora Lambruschini