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In una New York frenetica, che affascina e
divora, piena di ombre e luci, possibilità e contraddizioni, un ventitreenne
arriva sulla scia di un sogno: frequentare una scuola di fotografia e farne
magari una professione di cui vivere. Benché si trovi inserito in un contesto squallido, con coinquilini
stravaganti e scarafaggi che corrono nel buio, costretto a ricorrere a
espedienti e lavoretti di fortuna per mantenersi, il giovane osserva già la realtà con l’occhio
dell’artista, di chi, dietro a ogni dettaglio, riesce a leggere una storia.
Il titolo del nuovo romanzo di Maurizio Fiorino, che arriva dopo il durissimo Macello (ne abbiamo parlato qui), ci trasporta immediatamente nell’orizzonte dell’autofiction e l’autoritratto che viene proposto è, al contempo, letterario e in qualche modo fotografico. Questo aspetto si coglie principalmente nei modi del narrare e nel taglio delle scene – una sorta di precisa inquadratura di cui l’autore ci rende partecipi; al centro, sotterraneo filo conduttore, è il tema dell’autenticità, fondamentale nella ricerca di senso del protagonista, che fin da bambino scatta continuamente, quasi compulsivamente, foto di se stesso in cui ritrovarsi e poi, una volta giovane adulto, continua a cercarsi in riflessi esterni o negli occhi altrui. Il romanzo stesso, costituendosi appunto come un nuovo tentativo di ritratto, diventa veicolo di questa indagine esistenziale.
Mentre raccoglievo le fotografie sparse sul pavimento, mi sono domandato fino a che punto un’immagine fosse realmente sincera. Guardando i due ragazzi impressi sulla carta vedevo due esseri umani felici: ma eravamo davvero felici, io e Lou? (p. 92)
Proprio l’incontro con Louis, detto Lou, rappresenta la pietra d’inciampo per
il protagonista. Lou è un eterno bambino
con un’infanzia spezzata, vive in una casa sull’albero, fa le bolle di
sapone, si abbandona al vento, ma questi stessi tratti infantili che lo rendono
attraente ne fanno anche una persona immatura e poco affidabile, riluttante a
qualsiasi responsabilità e spaventata dall’idea di una stabilità desiderata, ma
vissuta anche come limitante, se non addirittura soffocante. Il narratore
coglie presto questa ambivalenza, ma
invece che esserne respinto la ricerca con sempre maggiore intensità:
Mi sentivo come Coney Island d’inverno – deserta e un po’ malinconica – […] volevo avvicinarmi ai confini della mia esistenza per vedere che effetto faceva, spingermi sempre più in là, dove non ero mai stato. (p. 57)
Il loro è un rapporto disfunzionale, manipolatorio, che spesso sfocia nella violenza, che vive di brevi istanti brucianti, in cui i due amanti consumano la propria vita e si consumano a vicenda, e di lunghi periodi di agonia sotterranea. Il momento iniziale dell’innamoramento, dell’illusione, dura solo fino alla scoperta del primo tradimento. Da lì in avanti, la relazione assume i contorni sfocati della dipendenza affettiva, di due ragazzi che cercano l’uno nell’altro un modo per riempire i propri vuoti interiori. Solo che, nel caso di Lou, il vuoto diventa abisso, baratro che inghiotte, invece per il narratore, che non cessa mai di interrogarsi, può diventare la matrice di quella mancanza che mette in movimento, del desiderio nel senso etimologico del termine. La crescita, forse la salvezza, passa attraverso un duplice riconoscimento: quello che porta il protagonista a identificarsi con l’altro, a pensarlo anima affine, e quello, successivo, di senso contrario, che porta a dare un nome al proprio bisogno, alla propria malattia.
C’era un lato di Lou che continuava ad attirarmi come una calamita, qualcosa che aveva a che fare col suo stare al mondo, o meglio con la sua inadeguatezza nello starci, dentro il mondo. Con lui due più due faceva sempre tre e quell’errore, seppure insindacabile, in quel periodo della mia esistenza era l’unica convinzione di cui avevo bisogno. […] Entrambi sapevamo di essere sbagliati senza sapere in cosa. (p. 98)
Prima di arrivare a una piena consapevolezza, o forse proprio per poterlo fare,
il giovane si lascia trascinare sempre
più a fondo, in una spirale di piccoli furti, droga e prostituzione, tutto
per tirare a campare un giorno di più in una
città notturna, invischiante, cui è facile attribuire ogni responsabilità
per i propri fallimenti.
Il narratore non ci dice molto di sé, del tempo
che ha preceduto il suo arrivo a New York (in tal senso il suo è davvero un
autoritratto newyorkese), ma dai
pochi frammenti di informazione che man mano si possono sommare, si comprende
che è proprio in quel prima, in
particolare nel rapporto con un padre fragile, mai veramente adulto, che si
annida una possibile risposta alla sua inquietudine. Il lettore si rende conto
che è a questo che il protagonista deve tornare, in questa direzione deve scavare, per arrivare alla rivelazione
tanto agognata.
Mentre Lou si nasconde dietro una ostentata
superficialità, lui ricerca continuamente intorno a sé frammenti di bellezza che spesso trova nell’arte, la quale si
presta, come un oracolo, a offrire una cassa di risonanza al suo dolore, e alle
sue continue domande. Il percorso è incerto perché il giovane non si sente degno di questa bellezza ed è ancora in
cerca di una forma espressiva per dirla, come quando si trova di fronte alla
colossale testa ellenica del Metropolitan. Anche lui, come quella, si sente un incompiuto, e fino al momento in cui
non si trova al suo cospetto non hai mai preso in considerazione che anche
l’incompletezza, anche le ferite, possano essere generatrici di grazia.
Non c’è niente di lubrico, di pruriginoso, in Autoritratto newyorkese, c’è anzi il
coraggio di mostrare una realtà spesso
sgradevole, di descrivere in termini asciutti, quasi asettici, le scelte di
vita, o meglio di sopravvivenza, dei personaggi. Anche il linguaggio ha la nitidezza dello scatto fotografico ad alta
risoluzione, descrittivo e lineare, a tratti clinico. L’indagine non lascia
scampo, vivida nei dettagli come un’immagine, e l’impulso che coglie il lettore
è ora quello di scrollare forte per le spalle il giovane protagonista, ora di
abbracciarlo, di salvarlo da dinamiche che sono chiare solo se osservate da
fuori, o a posteriori. Maurizio Fiorino compone un’opera in cui sono
riconoscibili alcuni tratti delle precedenti, ma in cui si percepisce
soprattutto un lavoro di scarnificazione
per arrivare, a qualsiasi costo, fosse anche quello di esporre la carne viva, a
una qualche verità.
Carolina Pernigo
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