Al di là del fiume
Iperborea, 2023
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Durante gli ultimi anni della seconda guerra mondiale, la Finlandia, la cui storia di quegli anni, poco nota, è davvero tutta da scoprire, combatte come alleata a fianco dei tedeschi. Quando però, alla fine del conflitto, l’Armata rossa inizia ad avanzare e la sorte della Germania appare ormai segnata, un accordo segreto tra il presidente finlandese e Stalin cambia improvvisamente gli equilibri interni, scatenando conflitti violenti tra l’esercito locale e gli antichi “fratelli in armi”. Dal governo finlandese arriva quindi un ordine di evacuazione della popolazione dall’area interessata dagli scontri: inizia così, nel settembre 1944, una migrazione di massa, che coinvolge per lo più donne, anziani e bambini, verso il confine, in attesa che torni la pace.
Quella che si prospetta alla giovane protagonista di questo romanzo, appena tredicenne, è una duplice missione: prima di tutto portare la mandria al sicuro al di là del Fiume, in una Svezia non tartassata dalla guerra, un “Occidente” dove i profughi sperano di trovare tregua, se non ricchezza; dopodiché prendersi cura della madre, mentalmente fragile, partita incinta prima di lei insieme allo Zio e poi dispersa. Si tratta di una grande responsabilità per quella che all’inizio del romanzo appare ancora una ragazzina, che avanza circondata da altri ragazzini, anche se qualcuno, come le poco più grandi Katri e Martta, cerca di comportarsi già come un adulto. Si tratta anche di una responsabilità gravosa, se si considera che la madre, per cercare la quale a un certo punto deve proseguire il viaggio da sola, non ha mai esibito affetto nei suoi confronti e si è anzi sempre comportata come se dovesse portare sulle spalle tutti i pesi del mondo, figlia compresa. La protagonista però si fa carico, conscia che non esista alternativa, dei compiti che le sono stati affidati e procede in un cammino estenuante, che si protrae giorno dopo giorno alle soglie e poi nel pieno dell’inverno finlandese – prima e dopo il Fiume, che per tanta parte segna il confine tra i due Stati (e tra due radicalmente diversi stati di cose).
Presto saremo ospiti in un’altra nazione, pensavo, una nazione di cui anche la nostra aveva fatto parte, tantissimo tempo fa. Se vivessimo ancora in quell’epoca, passando da una riva all’altra del Fiume resteremmo nel nostro paese, e parleremmo la stessa lingua sia al di qua che al di là, come succede anche oggi, solo che oggi loro sono in pace e noi in guerra. (p. 57)
Il romanzo procede col ritmo lento dei
passi della protagonista e delle mandrie – ciascun capo di bestiame
chiamato per nome, considerato individualmente, in virtù di quel legame perpetuo che pare integrare l’uomo e
una natura percepita, anche quando severa, sempre come sorella, mai come
nemica («Pensai alla guerra e alla morte.
Ebbi la netta sensazione di essere viva e che da me partisse un filo che mi
legava al mondo», 21). La ragazzina oppone a ogni fatica, a ogni dolore,
persino alla morte, una inesausta sete
di vita, una inquietudine febbrile che la porta a essere in sintonia con il
mondo circostante, in perenne movimento
come il tempo, come le stagioni, risolutamente
oppositiva a qualsiasi tentazione di cedimento:
Stavo per arrendermi, ma nelle viscere mi si accese una fiamma di vita che mi costrinse a muovermi. Uscii dal fosso sui gomiti e sulle ginocchia e mi sollevai contro un pino deforme, ma in un attimo persi l’equilibrio […]. Per puro istinto mi rialzai, e sentii il sangue gelarsi nelle vene. Ma il cuore urlò: non ancora! E scattò al galoppo. Il cervello si schiarì come se si fossero accese di colpo tutte le luci. Respirai e raccolsi tutta la forza di volontà che avevo. Sentii le gambe meno rattrappite e riuscii a reggermi in piedi. […] Incespicando avanzai tra le siepi. Mi imposi di andare avanti. (p. 131)
Nel corso del romanzo, ed elemento che maggiormente ne sancisce la cifra di modernità, la ragazza è costretta a fare, insieme a tanti altri, l’esperienza dura, a tratti mortificante, dei campi profughi. L’autrice riesce a descriverla in maniera netta, cruda: il sovraffollamento, le attese estenuanti, le code per il cibo o per i trattamenti sanitari, i corpi esposti e violati, la difficoltà a convivere in ambienti ristretti con altre persone, ciascuna portatrice di una propria visione, anche riguardo alla situazione in atto:
Una donna che portava degli occhiali senza una stanghetta disse in un sussurro rauco: questo posto è disumano, è un kolchoz. Un’altra in fondo alla baracca gridò: qui si sta da dio, ci danno da mangiare e dormire gratis, vestiti, legna per la stufa, una volta alla settimana un po’ di tabacco e pure qualche monetina […], cosa vuoi di più? (p. 138)
Anche l’atteggiamento degli svedesi non è univoco: c’è chi non riesce a dismettere un’ottica di pregiudizio, se non di palese razzismo («Sei una ragazzina sana e carina, guarda che bella carnagione hai, sembri più una persona che una rifugiata», p. 137) e chi, invece, come la volontaria Charlotte, riesce a mantenere attenzione e gentilezza anche nelle ristrettezze. C’è anche chi, di fronte alla realtà dell’essere umano, si trova costretto a rivedere le proprie posizioni assolute:
[L’ufficiale] sospirò profondamente e disse: finora pensavo che voi rifugiati, in fuga dalla guerra, vi steste accomodando senza invito alla nostra tavola per prendervi i bocconi migliori, ma guardandoti mi commuovo, e mi rendo conto che non avete abbandonato il vostro paese per divertimento. È stata la paura di morire a spingervi qua. Noi siamo uguali, di qua e di là dal Fiume, parliamo la stessa lingua, anche se sulle mappe siamo separati da un confine. (p. 134)
Il viaggio narrato da Rosa Liksom, che in questo caso consiste in un andata e in un ritorno, e poi in quello che viene dopo, si rivela parte integrante, e metafora, del percorso di crescita della protagonista. «Ero cambiata, ed era cambiata anche la mia terra. Ed entrambe saremmo cambiate ancora» (257), commenta a un tratto la narratrice. La vita è dinamismo, la giovinezza slancio e proiezione verso un futuro di cui siamo i responsabili, sembra dirci l’autrice.
Anche se il romanzo spesso indugia su elementi naturalistici, paesaggistici e
climatici, sul lirismo prevale sempre la
concretezza; sulla poesia la necessità di fare i conti con il reale, con le
asperità degli altri esseri umani, con l’asprezza del clima invernale, con le
malattie, i fluidi corporei, spesso anche con la morte dei propri cari, che –
pur nel dolore – viene attraversata e superata in quanto parte della vita. Al di là del fiume è un romanzo spigoloso e potente, un inno
laico alla vita, che a tratti accelera e a tratti rallenta, assecondando i
moti naturali della natura e quelli circostanziali dell’uomo. Il finale, potentissimo, esce dal piano
storico per entrare in quello esistenziale e ci mostra una giovane donna pronta
a prendere in mano attivamente il proprio destino. Se all’inizio del romanzo la
muoveva il peso delle aspettative altrui, ora la vediamo procedere con un passo
suo proprio, spinta da una nuova consapevolezza su ciò che comporta veramente,
anche in termini di priorità, rinunce e atti di coraggio, quel viaggio
ininterrotto che è la vita.
Carolina
Pernigo
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