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«Le donne insolite fanno paura»: temute, sottomesse, isolate. Le donne di Weyward, potente esordio di Emilia Hart è un canto di resilienza e solidarietà femminile

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Weyward
di Emilia Hart
Fazi, luglio 2023

Traduzione di Enrica Buretta

pp. 404
€ 20 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

Strega. È una parola che sguscia dalla bocca come un serpente, gocciola dalla lingua densa e nera come catrame. Non avevamo mai pensato a noi in questi termini, mia madre e io. Perché “strega” è una parola inventata dagli uomini, una parola che dà potere a chi la pronuncia, non a coloro che descrive. Una parola che erige forche e roghi, che trasforma donne vive in cadaveri. (p. 178)
Strega. Isterica. Zitella. Puttana. I dispregiativi con cui gli uomini ci hanno chiamate, nel corso dei secoli, quando non ci capiscono, quando non possono controllarci. Il corpo delle donne, da sottomettere, usare, punire. Condannare al rogo. Il 5 dicembre 1484 è ovviamente un uomo, papa Innocenzo VIII, a promulgare la bolla Summis desiderantes che dà il via alla caccia alle streghe in tutta Europa: donne processate, torturate, uccise. Oggi non finiamo più sul rogo, ma certi uomini hanno trovato nuovi sistemi per controllarci e farci del male.

Il romanzo d’esordio di Emilia Hart, Weyward, da poco in libreria per Fazi nella traduzione di Enrica Budetta, inizia da qui, dall’accusa di stregoneria che investe una delle tre donne protagoniste della storia: è il 1619 ed è Altha stessa a raccontare, un poco alla volta, quei lunghi giorni, la sporcizia, gli abusi, il buio, le accuse. È ritenuta responsabile della morte di un uomo, la parola “strega” risuona con forza nell’aula e le si appiccica addosso. Negli occhi di molti tra i presenti la sete di vendetta, il desiderio di punire chi non possono comprendere. Lei, che fino a qualche anno prima era considerata una guaritrice, come la madre. Ma a poco a poco il sospetto e la paura si sono insinuati tra gli abitanti del villaggio, mentre l’eco di quello che altrove stava accadendo ad altre donne dai talenti particolari arriva fino lì, nel cuore della Cumbria. Già da tempo ormai vivevano sempre più isolate, attente a non farsi notare, a non attirare sospetti, quando tutto precipita.

Un altro tempo, un altro luogo, non troppo lontano da lì. Un’altra donna, un altro tipo di violenza. Kate ha trent’anni e vive a Londra, prigioniera di un rapporto tossico, vittima di abusi psicologici e fisici. È il 2019, gli uomini malvagi hanno nuove armi per controllare e sottomettere le donne. Il suo corpo non le appartiene più, la sua vita è sotto il controllo dell’uomo di cui si era fidata e innamorata, che piano piano l’ha isolata da tutto e da tutti:
In realtà era solo la campana di vetro che veniva sostituita da un altro tipo di gabbia. Una che Simon aveva costruito con il fascino e le lusinghe, opprimente e impalpabile come una ragnatela. (p. 122)
Un altro tempo ancora, un’altra donna prigioniera. Violet non ha ancora diciott’anni e il suo futuro sembra già scritto, come per molte ragazze di buona famiglia nell’Inghilterra degli anni ’40: non le è concesso di ricevere l’istruzione che segretamente brama ma solo quelle poche nozioni necessarie a farne un bell’accessorio per qualche salotto elegante, la conversazione misurata e l’aspetto curato; vive seguendo le rigide regole del padre, isolata dal mondo nella dimora di famiglia, consapevole che la lascerà soltanto per un’altra gabbia dorata, la casa dell’uomo che verrà scelto come marito per lei.
In ogni caso ben presto il suo isolamento sarebbe finito… più o meno. Di lì a due anni, al compimento della maggiore età, papà le avrebbe organizzato una grande festa per il suo «debutto in società». A quel punto – così sperava lui – Violet avrebbe attirato l’attenzione di un buon partito, magari di un futuro lord, e lei avrebbe scambiato quella prigione con un’altra. (p. 25)
Una prigione, un padre-padrone e un affascinante cugino che si presenta alla loro porta: attraverso di lui la ragazza scoprirà qualcosa di più sui segreti a lungo custoditi dal padre, ma tutto precipiterà.

Emilia Hart intreccia una storia potente, nella quale le vicende delle tre donne si alternano e intrecciano fra loro rivelando un ricamo complesso e un legame che trascende il tempo e lo spazio. Si fondono tendenze di generi letterari diversi, dal romanzo di formazione al realismo magico, passando per il romanzo storico; ma il cuore nevralgico della narrazione sono proprio le donne Weyward, quello strano nome che ancora una volta è dato loro dagli uomini.
Era stato quello spirito selvaggio a darci il nostro nome. Erano stati gli uomini a definirci così, in un’epoca in cui il linguaggio non era altro che un germoglio che spuntava dalla terra. Weyward, così ci avevano chiamato, quando non ci sottomettevamo, quando non ci piegavamo al loro volere. Ma avevamo imparato a portare il nostro nome con orgoglio. (p. 344)
Sono donne insolite e «le donne insolite fanno paura»: dotate di talenti di cui talvolta nemmeno loro sono davvero consapevoli e possiedono un legame speciale con la natura, come se questa fosse «una forza vitale tanto quanto l’aria» che respirano. È per questo legame, per il loro potere, per il loro essere diverse, che sono temute, imprigionate, sottomesse. Le Weyward possiedono talenti che spaventano gli uomini, ma quante volte anche nella realtà le donne che non rientrano nei canoni – patriarcali – sono isolate, temute, controllate? Basta un piccolo scarto da quella che è considerata la norma per attirare le critiche, il sospetto: sottrarsi ai ruoli di moglie e madre, non rientrare nei canoni estetici dominanti, appassionarsi al proprio lavoro e magari ricoprire un ruolo di potere. Non poter essere controllate e allora giudicate.

Quello che Hart costruisce è un romanzo che avvince il lettore con gli intrecci della trama e le sue svolte inattese, ma soprattutto è il mezzo attraverso cui esplorare le forme della violenza contro le donne, che si perpetrano nei secoli in modi diversi ma ugualmente brutali. Nella storia di Altha, Violet e Kate c’è l’anelito alla libertà, il potere della solidarietà femminile, il coraggio delle proprie scelte e il desiderio di cambiare un destino che pare già scritto col sangue. Godibile nella forma e avvincente, apre spiragli verso argomenti serissimi e urgenti: il corpo delle donne, l’abuso, la maternità, le aspirazioni soffocate. Lì, tra le parole di una storia di resilienza e ribellione, possiamo scegliere se fermarci all’intreccio o addentrarci un po’ più in profondità e iniziare a interrogarci sulle tante questioni aperte dal romanzo. Hart ha bene in mente il significato della narrativa e il suo potenziale, come lo scarto che c’è tra fiction e approfondimento, saggistica: ma in quelle pieghe il messaggio arriva forte e diretto al lettore.

Le donne di Weyward sono figure complesse, fatte di carne e sangue e la narrazione non può che indugiare sui loro corpi, sui sensi, gli odori, gli istinti. Sono vittime e sopravvissute, ma sono anche donne che sbagliano, che fanno scelte pericolose, che infrangono promesse e provano a cambiare il destino proprio e delle loro eredi. In queste pieghe, appunto, si trovano altre riflessioni e spunti interessanti, a partire dal rapporto madre-figlia. Altha e sua madre, che vivono un legame totalizzante, unite nel tentativo di proteggersi, di non attirare sospetti. Gli uomini sono solo il mezzo per mettere al mondo una figlia femmina, per prendere un seme e portare avanti il nome Weyward, ma rappresentano anche il pericolo più grande. Nessun sentimentalismo, nessun banale risvolto romantico, sono loro due e sempre sarà. Ma è un legame complesso, di condivisione e segreti in egual misura, di obbedienza e di scelte.
È il legame mancato tra Violet e la propria madre, invece, il cui ricordo si è perso nel tempo: i silenzi e la severità del padre quando prova a chiederle di lei, della sua morte, del suo carattere. Che donne siamo grazie alle nostre madri? Che donne saremmo state se non le avessimo avute accanto?
È un rapporto complesso e tra i due poli rappresentati da Altha e Violet c’è quello intermedio di Kate: un legame che si è sfilacciato, il senso di colpa e le parole che mancano hanno incontrato lo scorrere del tempo, la distanza. Perdersi, non fare caso ai silenzi sempre più lunghi, le parole superficiali, i segreti. C’è quello che desideriamo e quello che scegliamo di non vedere.

Essere figlia, essere madre: Hart si pone a un capo e all’altro del filo e anche il racconto della maternità si intreccia a sentimenti forti, al sangue, ai segreti. Diventare madre, scegliere di non esserlo mai, tessere una rete di affetti e solidarietà femminile che è più forte dell’odio e della paura.
Sta tutto lì, in fondo, il senso di questo romanzo e i molteplici spunti che la lettura scatena: nella forza, nell’unicità, nei legami femminili che ci salvano.

Debora Lambruschini