Otto lezioni sull’Africa
di Alain Mabanckou
traduzione di Lorenzo Alunni
E/O, luglio 2023
pp. 192
€ 18,00 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)
Inserendo il sapere come elemento sostanziale, le fiction d’esplorazione non potevano fare altro che magnificare l’Africa a modo loro: con la prevedibile goffaggine del farne un continente unico, una terra dello strano e della fascinazione. (p. 23)
Nel 2016 lo scrittore Alain Mabanckou, autore di romanzi tradotti in tutto il mondo e vincitore del Prix Renaudot con il testo Mémoires de porc-épic (portato in Italia da 66thand2nd con il titolo Memorie di un porcospino), ha modo di tenere un corso di Creazione artistica al Collège de France: è l’occasione per Mabanckou di portare all’attenzione del pubblico accademico francese un tema che è tanto fondamentale in quanto è al contempo evidente e poco attenzionata la sua importanza. È l’occasione per parlare di quanto poco sia visibile, nell’ambiente accademico e letterario francese, quel vasto universo culturale che prende il nome di Africa, e questo nonostante il legame fortissimo che tiene unite le due realtà. È l’occasione, ancora, per lo scrittore franco-congolese, di evidenziare le ipocrisie di una nazione che della libertà e dell’indipendenza ha fatto i propri vessilli a partire da quel 1789 che ha segnato il destino di milioni di persone e cambiato per sempre il corso della storia.
Dati alla mano, Alai
Mabanckou entra nel cuore della questione sin dalla prima lezione, e nel
corso delle settimane esplicita il legame che unisce l’Europa – e soprattutto
la Francia – e l’Africa. Si parte dai romanzi d’esplorazione che, nel corso dei
secoli, vedono protagonisti i resoconti, spesso non veritieri, degli
esploratori europei. In questi testi, che hanno come pubblico una borghesia impegnata in tutt’altri interessi, l’Africa subsahariana viene presentata
come un luogo misterioso e affascinante, pieno di pericoli e culla di una
originaria purezza: qui vi sono foreste incontaminate, animali esotici, tribù
che vivono ancora in uno stato d’inciviltà e, ovviamente, ricchezze d’ogni
sorta. In questi testi le peculiarità culturali delle singole popolazioni e dei
singoli regni, pur presenti, vengono schiacciate per far posto a un’unica
grande narrazione: quella dell’Africa nera. Ciò avviene a partire
dalle copertine dei libri, che presentano sempre un deserto, una donna vestita
di tuniche colorate, un bambino magro che fissa l’orizzonte infuocato, dei
fiori mai visti prima. Mabanckou si sofferma a evidenziare un fenomeno importante:
questo tentativo di raccontare l’inesplorato – o meglio: l’inesplorato da parte
degli europei – attraverso il paragone fra le grandi capitali e i
luoghi al contempo ameni e non civilizzati avviene per l’Africa come per l’America
ma non intacca invece l’Asia, forse a causa della presenza di civiltà
altrettanto radicate, con una fortissima identità culturale (si pensi all’India,
al Giappone, alla Cina): laddove, dunque, l’Asia è il luogo degli scambi
culturali e commerciali, Africa e America diventano sin da subito i luoghi dell’appropriazione,
del possesso e dell’imperialismo. Il buon selvaggio che, lasciato a se stesso,
è capace solo di restare un individuo senza futuro, grazie all’opera degli europei può acquisire un grado di civiltà che, pur incomparabile con
il cittadino francese o tedesco, lo può elevare dal rango di sub-umano in cui ha vissuto
finora. E tutto questo in cambio di una libertà che a nulla serve se non
arricchita di progresso e stile di vita occidentale.
Ecco dunque che dopo la grande
epoca dell’esplorazione si giunge al periodo cupo del colonialismo. Se a
livello economico e sociale tutto cambia per il colonizzato che, rispetto all’epoca
precedente è ora totalmente sotto il giogo dell’europeo, a livello letterario
lo spostamento è meno percettibile. L’Africa è ora spaccata in tre: da un lato
abbiamo le narrazioni degli europei, soprattutto dei francesi, che la dipingono
ancora come culla di una civiltà tutta in potenza; da un altro troviamo le narrazioni
degli europei trapiantati nei paesi africani, che hanno modo di raccontare
quella terra da una prospettiva diversa e anche dunque, volendo, di raccontarne
le violenze, i soprusi, i giochi di potere, portando all’attenzione del grande
pubblico qualcosa mai evidenziato prima; infine, c’è una terza narrazione che
emerge ed è quella dei neri africani, dei nativi che, istruiti in una lingua
che non è quella d’origine, hanno modo di portare alle stampe la propria
cultura. È qui che nascono i
conflitti culturali, attraverso questo scontro fra colonizzatore e colonizzato
dopo che quest’ultimo, pur in catene, ha accesso finalmente a un linguaggio che
gli consente di parlare quasi alla pari con il proprio carceriere.
Tutto cambia nel Novecento quando l’Europa avvia quel processo di decolonizzazione che tanti
problemi ha lasciato il tutto il mondo in quanto avvenuto in modo parziale e imperfetto. Ciò che resta sono disordini, caos, sfruttamento e
degrado. In Africa è tempo dei colpi di Stato, di una tribalizzazione che
sembra portare indietro, anziché in avanti, la lancetta della civiltà. E i neri
africani, ormai avvezzi all’uso del francese, utilizzano proprio questa lingua
per raccontare ciò che avviene nei loro luoghi. I confini forzati, spesso
tracciati arbitrariamente dai colonizzatori senza tener conto delle differenze
culturali, religiose e sociali delle popolazioni indigene, sono spesso il casus
belli di massacri, guerre e genocidi, come avviene in Ruanda nel conflitto fra tutsi
e hutu alimentato dai coloni belgi. Mabanckou esplicita un passaggio tanto sottile
quanto rilevante: la letteratura post-coloniale si scaglia quasi sempre contro
il nemico europeo, visto come la causa principale dei problemi africani ma,
accanto a essa, c’è un’altra letteratura, quella che vuole raccontare la nuova
Africa e per farlo è costretta a utilizzare la lingua del padrone. Il francese,
ancora una volta, è la chiave di accesso al grande pubblico perché le lingue
locali hanno una fortissima connotazione orale e in alcuni casi non esistono neanche alfabeti
scritti. Da qui il paradosso: per raccontare se stessi e il rapporto
problematico con ciò che Africa non è, i neri hanno solo una lingua che non è la propria.
Ne consegue un fortissimo problema di identità e appartenenza culturali di cui
gli africani stessi sono consapevoli e che, a oggi non sembra di facile risoluzione.
La storia della cultura africana è
ancora in divenire, così come il rapporto del continente con il mondo
occidentale è ancora oggetto di dibattito. Le otto lezioni di Mabanckou sono una visione
parziale, ancorché interessante e fondamentale, per un primo punto di partenza.
La storia non è conclusa perché troppe sono le questioni in sospeso. Ma la
lettura di questo agevole testo è di certo utile per cominciare a interrogarsi
sullo stato delle cose.
David Valentini