Biografia corale a intarsio di Júlio Fogaça, segretario del partito comunista portoghese. Il nuovo romanzo di António Lobo Antunes, il più importante scrittore portoghese vivente




Dizionario del linguaggio dei fiori
di António Lobo Antunes
Feltrinelli, luglio 2023

Traduzione di Vittoria Martinetto

pp. 384
€ 24,00 (cartaceo)
€ 11,99 (eBook)

 […] per utilizzare il linguaggio dei fiori bastano poche regole. La prima consiste nel sapere che un fiore presentato diritto esprime un pensiero, e che basta rovesciarlo perché significhi il contrario; così un bocciolo di rosa mosqueta con le sue spine e foglie vuole dire: spero, ma temo; lo stesso bocciolo rovesciato invece: non c’è nulla da temere o da sperare. (p. 155)

Dizionario del linguaggio dei fiori, titolo originale dell’opera in lingua portoghese, è il trentaseiesimo libro del prolifico António Lobo Antunes, a buon diritto considerato il più importante autore portoghese vivente. Amo i libri dove lo stile brilla sopra la trama ed era da tanto che non scoprivo una prosa così particolare, così ardita e sorprendente. L’autore con estrema disinvoltura gioca con le parole, le gira e le rigira come calzini fra i colpi della sua penna, le lavora, le modella ed esse, materiale duttile, danno vita a metafore di grande impatto: Lobo Antunes è un fine cesellatore di immagini. In questo libro, però, è densa anche la trama che si presenta come il gioco del crucintarsio: la chiave non è nominata, ma attraverso l’incastro di ventiquattro testimonianze il lettore potrà risalire al nome di un personaggio veramente esistito. Si tratta di Júlio Fogaça, segretario del Partito comunista portoghese morto nel 1980.

Siamo di fronte a un romanzo corale, in cui risuonano le voci di diverse persone, familiari, uomini e donne che hanno incontrato sul loro cammino Júlio Fogaça. Ogni testimonianza presenta un tessuto narrativo estremamente particolare, esteso su due livelli: gli eventi del presente e la memoria. L’uno si sovrappone all’altra creando un ritmo spezzato, a volte vorticoso e ipnotico per via del martellare di formule ripetute o parole, come se ogni testimone temesse di perdere brandelli di antiche conversazioni o si sorprendesse a ricordare momenti della propria vita, immagini del passato che appaiono nel presente come proustiani flash, come squarci all’interno del racconto. 

[…] e i miei figli zitti, senza nemmeno parlarsi fra loro, quelli che vengono a prendere il ragazzo sempre lontani dalla mia vista, due tizi della polizia sono venuti a trovarmi avvertendo
- Il suo ragazzo
sono entrati nella sua stanza, gli hanno frugato la scrivania, l’armadio, hanno saggiato i muri battendo con le nocche, hanno fotografato carte
- Torneremo non si preoccupi
e il piano, sempre più forte, a suonare senza fine, e mio marito, che non sentiva nulla, a ripetere
- Tu
senza posa, con me che cercavo di capire perché mi trovo in questa casa, se potessi ritornare a Lisbona scommetto che troverei mia madre in cucina
- Ci hai messo tanti anni bambina
con l’età dell’epoca in cui mio padre se n’era andato, non malata, non vecchia, a sentirsi dire
- Forse un giorno tornerò chissà (p. 149)
Non nego di aver trovato molto faticoso l’approccio a questa prosa, che all’inizio esalta ed estrania; la sensazione di leggere qualcosa di potente affiora subito alla coscienza di chi legge, ma insieme alla frustrazione di non afferrare il filo logico della storia. Col passare delle pagine, aiutata anche dal titolo di ogni testimonianza che riporta il ruolo (madre, sorella, amico, compagno, etc.) che quel personaggio ha avuto e ha ancora con il giovane militante - incarcerato per ben due volte e torturato dai vertici del partito comunista -, il racconto si rischiara sempre di più e si gode appieno della straordinaria scrittura di Lobo Antunes.

La formazione medico-scientifica dello scrittore, specializzato in psichiatria, si rivela tra le pagine: l’attenzione alle “fisse” psicologiche dei personaggi, alle loro fragilità, soprattutto alle fratture mai sanate con i propri genitori, ormai defunti che riaffiorano vividi come riflessi in uno specchio. L’interesse a ricostruire traumi e sofferenze mentali, gli “irrisolti” della vita di ciascun testimone è una costante di ogni paragrafo-deposizione del libro. António Lobo Antunes ha vissuto sulla propria pelle il periodo della dittatura di Salazar, ma - come ha diverse volte confessato - non ha partecipato alla lotta di classe, ha avuto paura di esporsi alla polizia politica, alla tortura e alla possibilità di essere deportato. Julio Fogaça è l’eroe che ha sacrificato invece la propria vita al servizio del Partito comunista, ma è stato purtroppo allontanato dalla segreteria del movimento per le sue origini borghesi e per la sua omosessualità, rifiutata da suo padre e dai vertici politici. 
[…] per farla breve argomentano che il secondo candidato, che è il mio e quello della maggior parte dei compagni della Segreteria, non può essere eletto, sulla base di testimonianze che lo danno come omosessuale passivo, con tanto di nomi, soprattutto uomini più giovani e di umili origini, con i quali si sarebbe incontrato e continua ancora a incontrarsi per rapporti intimi […]. (p. 279) 

Júlio ha molti amici che lo stimano e gli vogliono bene all’interno del partito e gli trovano diverse compagne, votate al comunismo e preparate a prendersi cura di lui, ma dalle testimonianze di queste ragazze si evince che il giovane, dai modi gioviali e affascinanti, non avesse mai mostrato alcun interesse a consumare rapporti con loro. La famiglia del giovane è borghese e più volte nelle diverse testimonianze tornano le immagini di una sala della musica, con un pianoforte suonato dalla pingue sorella di lui, giardini con roseti e statue, cicogne immancabili sul tetto della bella dimora. I testimoni riferiscono quasi sempre però di furgoni misteriosi, nei quali Júlio scompariva per farsi vivo dopo diversi giorni e una amicizia particolarmente forte con un giovane meccanico che lavorava nell’officina paterna sulla collina di Pedralvas. Sono visioni ricorrenti tra le pagine, immerse tra il presente e il passato che affiora nella memoria di chi racconta, come in quella dell’agente della Piche che lo arrestò:

[…] quando arrivai e fermammo l’auto accanto alle statue di ceramica presso il roseto da potare, pieno di malerba e steli secchi e parassiti che si mangiavano i fiori, cominciammo a udire la musica, note e ancora note impalpabili come la pioviggine di maggio, che cadevano su di noi, che ci impedivano di udire le nostre stesse voci, che impedivano di ascoltare qualunque altro suono, che ci impedivano quasi di vederci gli uni gli altri, continuando ad aumentare, dissolvendo i miei gesti, i miei ordini, i miei passi mentre salivo le scale credo che con i miei agenti al seguito, credo che solo, io sulla soglia della sala del pianoforte dove sua sorella suonava, vedendola a malapena perché le onde del valzer non facevano che aumentare tra noi, perché solo la musica esisteva, perché lui e me dentro la musica, senza rabbia, senza collera, senza fretta, lui seduto su una seggiola e io in piedi davanti a lui, con la pistola dimenticata in mano, a guardarci l’un l’altro, a guardarci per ore l’un l’altro mentre le onde del compositore ci sommergevano, ci dissolvevano, se ne andavano lasciandoci lì, perciò adesso, ormai notte, siamo ancora tutti e due, muti nella stanza buia, mentre una goccia o due di suono cade ogni tanto là fuori […]. (pp. 254-255)

Il linguaggio usato da Antunes in questo libro è elegante, è una prosa che conserva il sapore d’altri tempi e che riveste un montaggio spettacolare di immagini e sensazioni rese attraverso un ininterrotto flusso di coscienza dei personaggi: la cronologia di ogni racconto è scomposta, si ha l’impressione di vivere lo stesso interminabile presente. Si tratta di un meccanismo narrativo di grande impatto ed efficacia, che si basa anche sulla quasi assenza di punteggiatura, di segni di interpunzione e di indicazione del dialogo diretto. La nitidezza con cui rende gli acciacchi dell’età - grazie alle sue meravigliose metafore - questa attenzione tra la nostalgia della gioventù e la rassegnata attesa della fine, mi ha colpita profondamente e immagino che essa sia da ascrivere all’esperienza in prima persona dello scrittore che ha compiuto ottantun anni. Si può però ben dire, alla luce di questa avventura letteraria, che la sua penna è di una gagliardia e un’arditezza che oscura quella di molti giovani e talentuosi scrittori!

(Siamo fratelli o no?)
seduti l’uno accanto all’altro senza bisogno di parlare, sei stato perfino in galera a Tarrafal e non hai mai fatto un nome né svuotato il sacco, hai sopportato dolcemente, quando mia madre ha avuto quel problema alle ovaie non hai trasferito la sua malattie nel tuo corpo solo perché non eri donna, mio fratello è una checca e io ne vado orgoglioso, mio fratello sarà tutto quel che volete e io continuo
Júlio
a essere orgoglioso di te. (p. 341)

Marianna Inserra