[…] per utilizzare il linguaggio dei fiori bastano poche regole. La prima consiste nel sapere che un fiore presentato diritto esprime un pensiero, e che basta rovesciarlo perché significhi il contrario; così un bocciolo di rosa mosqueta con le sue spine e foglie vuole dire: spero, ma temo; lo stesso bocciolo rovesciato invece: non c’è nulla da temere o da sperare. (p. 155)
Siamo di fronte a un romanzo corale, in cui risuonano le voci di diverse persone, familiari, uomini e donne che hanno incontrato sul loro cammino Júlio Fogaça. Ogni testimonianza presenta un tessuto narrativo estremamente particolare, esteso su due livelli: gli eventi del presente e la memoria. L’uno si sovrappone all’altra creando un ritmo spezzato, a volte vorticoso e ipnotico per via del martellare di formule ripetute o parole, come se ogni testimone temesse di perdere brandelli di antiche conversazioni o si sorprendesse a ricordare momenti della propria vita, immagini del passato che appaiono nel presente come proustiani flash, come squarci all’interno del racconto.
[…] e i miei figli zitti, senza nemmeno parlarsi fra loro, quelli che vengono a prendere il ragazzo sempre lontani dalla mia vista, due tizi della polizia sono venuti a trovarmi avvertendo- Il suo ragazzosono entrati nella sua stanza, gli hanno frugato la scrivania, l’armadio, hanno saggiato i muri battendo con le nocche, hanno fotografato carte- Torneremo non si preoccupie il piano, sempre più forte, a suonare senza fine, e mio marito, che non sentiva nulla, a ripetere- Tusenza posa, con me che cercavo di capire perché mi trovo in questa casa, se potessi ritornare a Lisbona scommetto che troverei mia madre in cucina- Ci hai messo tanti anni bambinacon l’età dell’epoca in cui mio padre se n’era andato, non malata, non vecchia, a sentirsi dire- Forse un giorno tornerò chissà (p. 149)
[…] per farla breve argomentano che il secondo candidato, che è il mio e quello della maggior parte dei compagni della Segreteria, non può essere eletto, sulla base di testimonianze che lo danno come omosessuale passivo, con tanto di nomi, soprattutto uomini più giovani e di umili origini, con i quali si sarebbe incontrato e continua ancora a incontrarsi per rapporti intimi […]. (p. 279)
Júlio ha molti amici che lo stimano e gli vogliono bene all’interno del partito e gli trovano diverse compagne, votate al comunismo e preparate a prendersi cura di lui, ma dalle testimonianze di queste ragazze si evince che il giovane, dai modi gioviali e affascinanti, non avesse mai mostrato alcun interesse a consumare rapporti con loro. La famiglia del giovane è borghese e più volte nelle diverse testimonianze tornano le immagini di una sala della musica, con un pianoforte suonato dalla pingue sorella di lui, giardini con roseti e statue, cicogne immancabili sul tetto della bella dimora. I testimoni riferiscono quasi sempre però di furgoni misteriosi, nei quali Júlio scompariva per farsi vivo dopo diversi giorni e una amicizia particolarmente forte con un giovane meccanico che lavorava nell’officina paterna sulla collina di Pedralvas. Sono visioni ricorrenti tra le pagine, immerse tra il presente e il passato che affiora nella memoria di chi racconta, come in quella dell’agente della Piche che lo arrestò:
[…] quando arrivai e fermammo l’auto accanto alle statue di ceramica presso il roseto da potare, pieno di malerba e steli secchi e parassiti che si mangiavano i fiori, cominciammo a udire la musica, note e ancora note impalpabili come la pioviggine di maggio, che cadevano su di noi, che ci impedivano di udire le nostre stesse voci, che impedivano di ascoltare qualunque altro suono, che ci impedivano quasi di vederci gli uni gli altri, continuando ad aumentare, dissolvendo i miei gesti, i miei ordini, i miei passi mentre salivo le scale credo che con i miei agenti al seguito, credo che solo, io sulla soglia della sala del pianoforte dove sua sorella suonava, vedendola a malapena perché le onde del valzer non facevano che aumentare tra noi, perché solo la musica esisteva, perché lui e me dentro la musica, senza rabbia, senza collera, senza fretta, lui seduto su una seggiola e io in piedi davanti a lui, con la pistola dimenticata in mano, a guardarci l’un l’altro, a guardarci per ore l’un l’altro mentre le onde del compositore ci sommergevano, ci dissolvevano, se ne andavano lasciandoci lì, perciò adesso, ormai notte, siamo ancora tutti e due, muti nella stanza buia, mentre una goccia o due di suono cade ogni tanto là fuori […]. (pp. 254-255)
Il linguaggio usato da Antunes in questo libro è elegante, è una prosa che conserva il sapore d’altri tempi e che riveste un montaggio spettacolare di immagini e sensazioni rese attraverso un ininterrotto flusso di coscienza dei personaggi: la cronologia di ogni racconto è scomposta, si ha l’impressione di vivere lo stesso interminabile presente. Si tratta di un meccanismo narrativo di grande impatto ed efficacia, che si basa anche sulla quasi assenza di punteggiatura, di segni di interpunzione e di indicazione del dialogo diretto. La nitidezza con cui rende gli acciacchi dell’età - grazie alle sue meravigliose metafore - questa attenzione tra la nostalgia della gioventù e la rassegnata attesa della fine, mi ha colpita profondamente e immagino che essa sia da ascrivere all’esperienza in prima persona dello scrittore che ha compiuto ottantun anni. Si può però ben dire, alla luce di questa avventura letteraria, che la sua penna è di una gagliardia e un’arditezza che oscura quella di molti giovani e talentuosi scrittori!
(Siamo fratelli o no?)seduti l’uno accanto all’altro senza bisogno di parlare, sei stato perfino in galera a Tarrafal e non hai mai fatto un nome né svuotato il sacco, hai sopportato dolcemente, quando mia madre ha avuto quel problema alle ovaie non hai trasferito la sua malattie nel tuo corpo solo perché non eri donna, mio fratello è una checca e io ne vado orgoglioso, mio fratello sarà tutto quel che volete e io continuoJúlioa essere orgoglioso di te. (p. 341)
Marianna Inserra