E una notte fece un sogno, non un incubo, ebbe visioni fantastiche dell’Altro Mondo, forse quello da cui provenivano gli americani. Vide Sister Deborah e Ragagara. Sister Deborah danzava davanti al vecchio chef. E credette di sentire che il padre diceva alla danzatrice:
«Conduci mio figlio nel luogo del mio riposo». (p. 31)
La storia di Sister Deborah (o Sorella Deborah, o Suor Deborah) si basa su fatti reali: nel 1927, infatti, una profezia annunciava l'arrivo di una donna nera che sarebbe emersa da un lago portando con sé un seme miracoloso che avrebbe eliminato la carestia e scacciato gli invasori bianchi. Da qui prende avvio la narrazione di Scholastique Mukasonga, scrittrice ruandese di etnia tutsi – una delle due principali etnie del Ruanda, nonché la parte offesa nel genocidio del 1994 – che ha deciso di costruire il proprio romanzo in francese, ossia nella “lingua del colonizzatore”. Come affermato da Alain Mabanckou nel saggio Otto lezioni sull’Africa, di recente pubblicazione per E/O e da noi affrontato qui, gran parte della letteratura africana utilizza il francese anziché le lingue locali, e questo sia perché queste ultime sono spesso affidate alla tradizione orale, sia perché in questo modo il pubblico di riferimento risulta decisamente più ampio.
La storia di Sister Deborah, che
mescola invenzione letteraria e fatti reali, viene narrata da ben tre
punti di vista. La prima metà del libro affronta il rapporto complicato di
Sister Deborah prima con il chef Ragagara e poi con suo figlio Musoni,
per passare infine alla rivolta delle donne ruandesi sedata in maniera durissima
dalle forze locali. Successivamente, viene ripresa dal punto di vista
di Sister Deborah in persona, che racconta la propria versione partendo dagli
Stati Uniti, dove scopriamo le sue origini e le motivazioni che spingono lei e
la sua équipe a intraprendere un viaggio sin dall’inizio considerato pericoloso
nel cuore dell’Africa. Infine, a raccontare l’epilogo della vicenda è una ricercatrice
intenzionata a studiare quanto accaduto alla donna che, quando lei era bambina,
l’ha salvata da una morte certa con le proprie cure: Ikirezi raggiunge dunque
la bidonville di Nairobi, dove Sister Deborah si è rifugiata ed è nel frattempo
divenuta Mama Nganga, e qui scopre la verità taciuta negli anni.
Sister Deborah è un romanzo che pone al centro il rapporto con la
verità: la verità di una storia che assume contorni diversi se a raccontarla
sono le forze locali di un Paese, le persone direttamente coinvolte e che hanno
agito per fare il bene, o infine una ricercatrice che vuole indagare i fatti
nudi e crudi. Inutile dire che non esiste una verità assoluta, perché se i
fatti sono fatti le intenzioni che muovono il tutto sono invece suscettibili di
interpretazioni e manipolazioni. Dove posizionarsi all’interno dell’ampio
spettro della verità è un onere affidato al lettore, che può scegliere di
schierarsi con i ruandesi, con i francesi o con gli americani.
In questo miscuglio di culture
emerge potente l’altro tema centrale del romanzo, che si inserisce nel filone
variegato della letteratura post-coloniale africana: il rapporto con gli ex
coloni e lo sfacelo che si sono lasciati dietro. In Ruanda, come in diverse
altre parti dell’Africa, non è pensabile raccontare le proprie storie senza fare i conti con il recente passato. Sono trascorsi settant’anni circa da
quando la bandiera francese sventolava nei territori africani eppure la
presenza sua e dell’Europa tutta è ancora ingombrante. La dissoluzione del CFA,
la moneta utilizzata dalla Francia per controllare le ex colonie, è
avvenuta ma è innegabile che l’occupazione sia ancora in atto sul piano economico
e nelle decisioni politiche dei vari paesi. A livello letterario, come si è
anticipato, quanto avvenuto e quanto avviene tuttora è tema di ampia
discussione nei romanzi africani.
Le conseguenze immediate del
periodo coloniale si ritrovano in Sister Deborah nel melting pot religioso,
ossia nel grande fiume nel quale sono confluite le religioni africane e il cristianesimo
di stampo occidentale. L’escatologia ruandese narrata nel romanzo di Mukasonga
vede al centro un Gesù nero che è adattamento perfetto di una religione di
bianchi e che per necessità si trasforma qui in qualcosa di diverso e
stratificato, così da venir compreso da chi è cresciuto con lo spiritismo e l’animismo
tipico di culture altre. Per il lettore novizio è intrigante fare i conti con
una religione conosciuta in un determinato modo e ritrovata con sembianze
stravolte eppur familiari nonostante tutto.
Ciò che invece rende la lettura un
poco complessa è la mescolanza – anche qui – di termini francesi, tradotti in
italiano, e parole di origine africana, lasciate in corsivo nel testo e non
sempre esplicitate dalle note a piè di pagina. Il folklore locale e la cultura
africana pervadono tutto il testo ma per chi legge la difficoltà
è doppia: comprendere in primis ciò di cui si sta parlando e inserirlo poi nel contesto
di una narrazione già non semplice perché – come accade anche nelle tradizioni
orali – l’accadimento di alcuni eventi e la conoscenza di determinati fatti
sono dati per scontati.
Sister Deborah è in conclusione un romanzo breve in grado di sollevare dubbi sul concetto stesso di verità e di porre domande su domande, lasciando però insolute le risposte. È una lettura complessa, resa poco accattivante in alcuni passaggi da una mancanza di chiarezza espositiva che, pur nelle intenzioni dell’autrice, non offre appigli robusti al lettore che rischia di restare a osservare confuso il proseguire degli eventi.
David Valentini
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