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"Di notte tutto è silenzio a Teheran": il canto d'amore di Shida Bazyar per il popolo iraniano

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Di notte tutto è silenzio a Teheran
di Shida Bazyar
Fandango Libri, 2023

Traduzione  di Lavinia Azzone

pp. 288
€ 19,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


Cinque io narranti, ognuno contrassegnato da un decennio (tranne Tara a cui è affidato l'epilogo) ci raccontano l'Iran dal 1979 al 2009, ma anche la vita degli esuli iraniani in Germania. Shida Bazyar, figlia di esuli e attivisti politici iraniani cresciuta in Germania (il libro è scritto in tedesco) ci narra con sensibilità e maestria la voragine di violenza e oscurantismo che ha inghiottito l'Iran dalla Rivoluzione del 1979, nonostante le premesse e i sogni dei giovani rivoluzionari.
Si parte proprio da queste, nel capitolo affidato a Behsad, che narra il 1979; Behsad e il suo amico Sohrab che hanno cacciato insieme a migliaia di loro coetanei lo scià e hanno sognato una società giusta e libera, lontana dai diktat statunitensi.
La voce mia e di Sohrab hanno scagliato gli slogan nel caldo cielo invernale, le nostre voci da fumatore, che non sono più voci di bambini, che sono così abituate a risuonare all'unisono. Io ho alzato il mio braccio, e il mio braccio era il suo braccio, ovunque intorno a noi braccia, teste nere davanti a noi, dietro di noi, camicie militari e sudore, barbe e pizzetti, veli sul capo e capelli tinti, fumo di sigarette e profumo, in marcia verso la libertà, più nessuna domanda, da nessuna parte domande, ovunque solo la risposta che noi a lungo avevamo predetto. (p. 20)

Ma la storia è imprevedibile e quello che per Behsad doveva essere solo una fase (il movimento religioso) ha preso il sopravvento e il viso di Khomeini andò a sostituire quello dello scià nei negozi, negli uffici, nei cartelloni. Le riunioni dei giovani rivoluzionari di sinistra tornano a essere clandestine e in queste riunioni Behsad conosce Nahid, che sarà l'io narrante della seconda parte del romanzo, quella che si svolge nel 1989.

Behsad e Nahid, ormai sposi e con due bimbi al seguito, si trovano in Germania, esuli politici. Ma usano sempre meno la parola esilio: «al suo posto invece diciamo permesso di soggiorno e avvocato e provveditorato agli studi e procedura di revisione» (p. 105). Usano queste parole perché danno loro l'impressione che la loro permanenza in Germania sia transitoria, che i loro figli non saranno occidentali, che manterranno sempre vivo il legame con la terra dei padri. Nahid, guardando le ragazze rumorose sedute sulla fontana o sulle gambe di un ragazzo che non amano, pensa che sia una fortuna che 

la mia Laleh non crescerà qui, non la perderò mai a una fontana con un paio di leggings colorati, prima che Laleh sia diventata tanto grande, noi saremo tornati, Khomeini sarà morto, sarà tutto completamente diverso, tutto sarà migliore, fino ad allora reprimerò il suo desiderio di gomme da masticare, perché forse tutto comincia così, prima ottiene una gomma da masticare, poi un paio di anni dopo vuole sedersi a una fontana con un paio di leggins colorati. (p. 108).

Invece, se Nahid tornerà in patria con la figlia sarà solo per un breve soggiorno di tre settimane, che ci verrà raccontato da Laleh, io narrante del 1989. Madre e due figlie (nel frattempo è nata anche Tara) tornano a Teheran a far visita alla famiglia, mentre Behsad rimane in Germania perché è ancora ricercato per la sua attività politica in patria; con lui resta il figlio Morad, detto Mo.

Il ritorno a Teheran di Laleh, che l'aveva lasciata da bambina, e di Nahid serve a mostrare da una parte la persistenza della memoria e del legame e dall'altra la distanza fra un mondo e l'altro; Laleh e Morad vivono in questa distanza; le loro esistenze hanno un carattere anfibio, non sono né iraniani né tedeschi, nostalgici, nel caso di Laleh, ed estranei, nel caso di Morad.

A quest'ultimo verrà affidato il racconto del 2009, quando la ribellione contro le elezioni truccate che portarono Ahmadinejad alla vittoria, causarono manifestazioni di piazza represse nel sangue. Morad guarda ossessivamente in tv e sul web i visi dei suoi coetanei di Teheran

Adesso, improvvisamente, ci sono tutti questi altri ventitreenni, per le strade di Teheran, sui siti di informazione, addirittura su RTL. E nella mia testa. Moltissimi in strada, strappati dalle loro case, via dal loro silenzio, improvvisamente sono lì e si difendono. Ci mandano le loro foto e i video sfocati dei loro telefoni e non vogliono dirci solo che si sono tenute delle elezioni presidenziali truccate, ma anche che qualcosa deve cambiare, che è tutto sbagliato, che non ce la fanno più. (p. 214)

Morad compara questa ribellione, questi visi, alle facce annoiate e ai discorsi triti e ritriti, canticchiati con le chitarre, dei coetanei tedeschi, che scimmiottano scioperi e proteste per perdere giorni di lezione. Le immagini che provengono da Teheran fanno pensare a Morad che il sogno dei suoi genitori si possa realizzare. L'attualità ci mostra come sono andate le cose.

Il libro di Shida Bazyar riesce senza retorica e senza sentimentalismo a portarci nel cuore di uno stato martoriato e di tante vite spezzate, riesce a coniugare la vita pubblica a quella privata e a mostrare in quanti rivoli la Storia riesca a fluire nelle storie, nelle biografie, nelle vite di tanti Nehsad e Nahid che attendono ancora, nonostante tutto, che un sogno si avveri.

Deborah Donato