La macina
di Margaret Drabble
Bompiani, giugno 2023
Traduzione di Marina Morpurgo
pp. 224
€ 13,00 (cartaceo)
€ 7,99 (ebook)
È probabile che, tra il pubblico italiano, il nome di Margaret Drabble non goda esattamente della stessa fama assunta, nel corso del tempo, da quello della sorella maggiore, Antonia Susan Byatt, la nota autrice di Possessione; ciononostante, si tratta di una scrittrice piuttosto prolifica e versatile, la cui produzione ha ricevuto notevole credito in patria. Al suo interno, un posto di rilievo è di certo occupato da La macina (The Millstone), romanzo originariamente dato alle stampe alla metà degli anni ’60 e tradotto in più di venti lingue, incentrato sulla figura di Rosamund Stacey, dottoranda laureata a Cambridge, dedita allo studio di una raccolta di sonetti elisabettiani.
Perno della narrazione, condotta in prima persona dalla protagonista, quasi come se fosse una confessione, è l’inaspettata gravidanza che la sorprende, diffidente e inesperta, dopo l’evanescente incontro di una notte (la prima e l’unica):
E alla fine arrivai a credere di essermi meritata questa punizione, perché avevo indugiato, ed esitato e tremato tanto a lungo. Se io a diciotto anni mi fossi buttata senza tanti riguardi, piena di passione generosa, come fanno le altre ragazze, me la sarei cavata anch’io. Ma essendo vittoriana nel profondo del cuore, fui punita con una pena vittoriana. (p. 22)
Eppure, nonostante al “fardello” agli occhi del mondo e, dunque, alla “punizione”, si alluda già dal titolo del libro, scomodando addirittura un termine adoperato in un passo evangelico, è la stessa Rosamund a rimarcare con convinzione: «non ritenevo, diversamente da quello che Hardy pensava di Tess, che gli eventi avessero cospirato perfidamente contro la mia innocenza» (p. 81).
In effetti, la condizione accidentale di questa ragazza come tante, intenta a mascherare imperizia e insicurezza con l’esibizione di una finta disinvoltura, si rivela essere lo strumento di una ben più ampia collocazione del personaggio. Nell’analizzare scenari che le si prospettano e possibilità offertele, la giovane arriva a ritagliarsi il ruolo di «una donna modello George Bernard Shaw, una di quelle che vogliono i figli ma non un marito» (p. 131). Pervenendo a questa conclusione in una società che, pur proclamando la liberazione dei costumi, non vede certo di buon occhio la gravidanza, al di fuori del matrimonio, di una madre single, Rosamund si dimostra consapevole del fatto di essere protetta dall’appartenenza alla propria classe sociale e dal suo grado d’istruzione:
C’è un altro punto che va tenuto in considerazione, riguardo alla mia scelta, ed è che io ero attrezzata per guadagnarmi da vivere, per sempre, e con un mestiere che si poteva esercitare anche in un letto d’ospedale, o in qualunque altro posto. E poi, anche se sono schiva quando si tratta di parlare delle mie capacità, probabilmente nutrivo una fiducia a prova di bomba nel mio talento, perché molto semplicemente non potevo credere che l’handicap di avere una sola minuscola bambina illegittima potesse influenzare di una virgola la mia carriera: mi trovavo per natura in una posizione di forza tale che se per caso si fosse arrivati, in una determinata situazione, a dover scegliere tra me e un’altra persona, io avrei vinto, grazie alla mia evidente superiorità intellettiva. (pp. 137-138)
Disporre della propria autonomia economica, nonché intellettuale, in quanto colta esponente di una famiglia borghese che l’ha cresciuta, non senza qualche complicazione, nel terreno del fabianesimo - «mi avevano inculcato l’idea dell’autosufficienza con tanta forza che la dipendenza mi appariva come un peccato mortale» (p. 11) - libera di muoversi in un bell’appartamento della zona residenziale londinese, le consente di portare a termine tanto un lavoro di tesi quanto una gravidanza imprevista.
Del resto, anche la consapevolezza del proprio privilegio ha contribuito a forgiarne il carattere timido e riservato di colei che detesta chiedere aiuto:
Da bambina, ero solita sopportare qualunque disagio pur di non arrecare offesa. Mangiavo anche ciò che trovavo disgustoso, gelavo in salotti troppo poco riscaldati, arrostivo sotto gli asciugacapelli, nei caffè bevevo in tazze scheggiate e sporche, pur di non offendere ospiti, camerieri, parrucchieri. Ero in grado di sopportare qualunque cosa, e il dolore che avrei provato nel creare problemi sarebbe stato molto maggiore. (p. 179)
Se la scelta, per nulla scontata, di crescere una figlia da sola è destinata a mettere in discussione la rigida passività di questo atteggiamento, lasciando irrompere la pulsante e viscerale realtà all’interno di una vita fino a quel momento prettamente d’astrazione, ciò non le impedisce di guardare alla maternità senza alcuna retorica:
Si sente parlare molto, sebbene in genere a farlo siano i maschi interessati, della bellezza della donna incinta, una nave a vele spiegate, e tutto quel genere di metafore eufemistiche, e immagino di aver visto di tanto in tanto una certa placida luminosità sui volti di giovani signore ben nutrite e di buona famiglia, ma il peso dell’evidenza indica proprio l’esatto contrario. Sulla maggior parte di quelle facce vedevo i segni dell’anemia e dello sfinimento: gli abiti erano orrendi, le gambe gonfie, i corpi pesanti e sbilanciati. (p. 69)
Nella parabola che Margaret Drabble traccia per la sua protagonista non c’è spazio per banali ipocrisie o finti moralismi, ogni dettaglio, coadiuvato da una scrittura fluida e lineare, risulta connotato dalla schiettezza disarmante di un punto di vista femminile che non cerca l’approvazione altrui e, abbracciando le contraddizioni di un cambiamento radicale, arriva a conoscersi nel profondo, in modo diretto, intenso e riflessivo.
Chiara Tolomei
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