[…] Le voci minacciose avevano portato la notizia di un attentato a Parigi: un diplomatico tedesco ucciso con cinque colpi di pistola da un giovane ebreo polacco. Gli altoparlanti del Terzo Reich gridavano vendetta. A marzo la Germania aveva annesso l’Austria e la Wehrmacht era sfilata con la sua arroganza militare nel centro di Vienna, tra gli applausi di una folla entusiasta; da allora, Rudolf Adler viveva nell’angoscia. I suoi timori erano iniziati qualche anno prima ed erano cresciuti a mano a mano che il potere dei nazisti si rafforzava, grazie ai finanziamenti e alle armi di Hitler. (pp. 10-11)
Rudolf era sposato con la bella Rachel ed entrambi erano concentrati a proteggere il loro piccolo Samuel: «di quasi sei anni, aveva la maturità di un adulto; osservava, ascoltava e capiva senza fare domande» (p. 12). Da settimane i due coniugi vivevano camminando sul filo del rasoio, attenti e circospetti, fidandosi solo dell’amico di famiglia, il farmacista Peter Steiner, al quale segretamente dalla moglie, ma con lungimiranza, Rudolf aveva intestato la casa e il laboratorio. Un giorno il papà del piccolo non fa ritorno a casa, invano Steiner e Rachel provano a rintracciarlo per riportarlo a casa e, quando le violenze dei gruppi paramilitari nazisti si fanno sempre più capillari, Samuel, tra le lacrime della madre e di un vicino di casa che li aveva protetti in casa sua per alcuni giorni, viene messo in treno insieme ad altri figli di ebrei per essere affidato alla generosità di qualche famiglia inglese di buon cuore, nella speranza che prima o poi i loro genitori venissero di nuovo a riabbracciarli.
Per le strade di Vienna, quei giorni di novembre e dicembre del 1938, l’uomo era diventato una bestia, follia e distruzione imperversavano nelle strade, nelle case e nei negozi ebrei e, nel caos, quell’energia infernale diventava contagiosa. In effetti «ormai nessun ebreo era più al sicuro» (p. 42):
Il farmacista si rese conto, sconvolto dalla sua stessa reazione, che l’energia animale della folla era contagiosa e liberatoria, che anche lui provava l’impulso di spaccare e bruciare e urlare fino a soffocare, che stava diventando un mostro. Ansimante, coperto di sudore, con la bocca asciutta e la pelle accapponata dalla scarica d’adrenalina, si accovacciò dietro un albero, cercando di riprendere fiato e lucidità. “Rudi…Rudi…” mormorò e continuò a ripeterlo ad alta voce finché il nome dell’amico non lo aiutò a tornare in sé. (p. 30-31)
Dopo una prima parte dedicata a Samuel Radler e alla sua famiglia, Allende lascia in sospeso i fili di questa storia e comincia ad avviare i motivi di una nuova: stavolta, come anticipato, siamo nel 1981, nel Salvador, dove anche qui, nel villaggio di El Mozote, accaddero episodi di violenze, meno conosciuti delle persecuzioni ebraiche, ma altrettanto inaccettabili, soprattutto perché vennero trucidati soprattutto bambini dai soldati della dittatura salvadoregna. Il timore del governo era quello che si diffondessero nel paese movimenti di sinistra.
I bambini vennero trapassati dalle baionette o dalle raffiche di mitra e poi il convento venne dato alle fiamme. I piccoli corpi carbonizzati erano irriconoscibili. Con il sangue di un bambino scrissero sul muro della scuola: “Un bambino morto, un guerrigliero in meno”. Uccisero anche gli animali e incendiarono le case e i raccolti. Dietro a loro lasciarono solo cadaveri e roghi fumanti. Compirono la missione fino in fondo: annientarono più di ottocento persone, metà delle quali erano bambini con un età media di sei anni. Cancellarono la vita. Ci furono molte operazioni simili negli anni ottanta, durante la guerra civile che durò dodici anni e provocò settantacinquemila morti, la maggior parte assassinati dai militari. (p. 77-78)
Alcuni bambini si salvarono, riuscirono a scappare in tempo ed è a questo punto che si inserisce la storia di Leticia, una ragazzina cagionevole, cresciuta in povertà in una casupola, ma nell’amore dei genitori e della nonna. Era in ospedale, appena dimessa in seguito a un intervento allo stomaco, quando il padre venne a prenderla per metterla in salvo: il loro villaggio era stato raso al suolo dai militari.
La narrazione de Il vento conosce il mio nome procede gettando le fila e abbozzando, come nel lavoro a maglia, una parte della storia di un determinato personaggio, per poi riprendere ogni modulo insieme e svilupparlo fino al risultato finale. L’altra bambina, il secondo personaggio principale del romanzo, appare nella narrazione dopo la storia di Leticia: vive in Arizona, in un centro di accoglienza per immigrati, è quasi cieca, destinata a vivere in una casa-famiglia. Anita sembra che viva in un mondo tutto suo, che parli con un’amica invisibile, ma in realtà è il suo modo per sopravvivere alle atrocità che ha vissuto e all’amarezza che ogni tanto le punge il cuore. Selena, un’assistente sociale e Frank, noto avvocato, faranno di tutto per ricostruire la famiglia di origine della bambina.
Nel mezzo di una narrazione che procede in terza persona, Allende inserisce dei capitoli narrati in prima persona dalla piccola Anita, che discorre con Claudia, la sorellina morta, esprime con ingenuità e dolcezza disarmante i suoi pensieri sulla realtà che sta intorno a lei. È una vocina che conferisce varietà al tessuto narrativo.
Chi ha amato il celebre La casa degli spiriti resterà sicuramente deluso da questo romanzo: manca quella caratterizzazione dei personaggi e anche quello spessore delle figure femminili a cui Allende è sempre attenta. In questa narrazione per piani spazio-temporali diversi - non nuova ovviamente - credo che non sia stata ben bilanciata la distribuzione delle scene-storie: ho avuto difficoltà, ad esempio, nell’ultima parte del libro, a ricordare Leticia, perché tra le varie storie e i vari nomi, era effettivamente passato molto materiale narrativo che aveva richiesto attenzione e, di conseguenza, ho dovuto interrompere la lettura per cercare nelle pagine iniziali la sua storia familiare.
Ho trovato inoltre stucchevole e prevedibile l'evoluzione dei rapporti tra la procace e testarda assistente sociale e il bell’avvocato: concentrarsi sulle loro vite private mi è parso inutile ai fini dell’intreccio principale.
Detto questo, la tematica dei bambini figli di immigrati, sopravvissuti a tragedie immani è sicuramente di impatto e troverà lettori e lettrici che apprezzeranno l’abilità narrativa e la penna scorrevole di Allende. Ma chi si aspettava un’opera che scavalcasse la facile retorica, che trattasse il focus narrativo con originalità e una caratterizzazione dei personaggi ad ampio respiro, rimarrà inevitabilmente con l’amaro in bocca.
Marianna Inserra
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